sabato 28 febbraio 2015

Silenzio # 18



SILENZIO

Passa, sono sepolti…
Una nuvola scivola sul disco del sole.
La fame è un alto edificio
che si sposta di notte
nella camera si apre l’oscura
tromba dell’ascensore verso le viscere.
Fiori nel fossato. Fanfara e silenzio.
Passa, sono sepolti…
Le posate d’argento sopravvivono
in grandi frotte
a grandi profondità dove l’Atlantico
è nero.

(
Tomas Tranströmer – trad. Maria Cristina Lombardi)




giovedì 26 febbraio 2015

Shadow - L'Ombra (2009)


Non sono appassionato di horror, in particolare di quelli dove si fa abuso di scene splatter e il sangue scorre a fiumi. Mi è toccato subirne la visione durante l’adolescenza, poiché sembrava fosse “necessario” dedicarci qualche serata in compagnia, ma il mio entusiasmo non era propriamente palpabile.

Di solito, quindi, li evito con cura, sebbene per ragioni lavorative ancora adesso mi trovi a vederne alcuni. Il numero dei film horror pessimi è alto, ma ogni tanto mi è capitato di vederne alcuni non del tutto disprezzabili, almeno per rispetto del “classico” e perché offrivano qualche scena ben costruita. Le sceneggiature tendono ad essere molto simili, ma la differenza, spesso, la fa la resa e la costruzione di tematiche e situazioni.

Dopo questo “pistolotto introduttivo”, superfluo quanto fastidioso, arrivo a parlare di un horror: “Shadow – l’Ombra”, per la regia di Federico Zampaglione (proprio quello dei Tiromancino).

Non avevo programmato la visione del film, ma già dalle prime scene, ben introdotte da musica e titoli di testa, ho riconosciuto le Alpi Giulie ed i laghi di Fusine con i boschi che li circondano. Luoghi a me molto cari, per cui la mia attenzione era, anche se casualmente, catturata!

Ebbene me lo sono visto tutto e devo riconoscere di averne apprezzato vari aspetti. La prima parte sfrutta la bellezza dei luoghi per un efficace contrasto con le tematiche propriamente horror, dove l’accattivante protagonista e la immancabile giovane donna devono confrontarsi con una altrettanto imprescindibile leggenda che, da collaudato copione, si rivela essere ben più di una storia inventata per spaventare bambini e curiosi. Nel corso del film si passa ad un horror claustrofobico, in spazi ed ambienti chiusi, difficilmente localizzabili, dove la narrazione perde di originalità ed il ritmo sostenuto quanto basta non è sufficiente a mascherare qualche cliché di troppo (scopiazzature od omaggio? la questione spesso è questa!).


Una sorta di favola nera, in questo sembra risolversi “Shadow – l’Ombra”, dove realtà e fantasia fanno a gara in tema di crudeltà e orrore. L’attenzione all’elemento “politico” rischia di stonare un po’ nell’insieme, ma se lo spettatore non ne è urtato risulta funzionale ad una visione (tesi?) che si rivela nel finale, niente affatto banale, poiché recupera una serie di elementi e “indizi” sparsi nelle scene. Il “cattivo” fa abbastanza paura e rimane impresso, evitando involontari e grotteschi rimandi al già visto che risulterebbero ridicoli. Non un horror puro e “duro”, non si punta al “memorabile”, ma questa mia personale incursione in un genere che trascuro mi è risultata piacevole.


“David, un giovane soldato di ritorno dall'Iraq, decide di ritirarsi in una isolata località di montagna per ricomporre i pezzi della sua vita. In mezzo ad una foresta David incontra Angeline e insieme a lei inizia a esplorare la zona, venendo a conoscenza anche di una terrificante leggenda locale. Ben presto il giovane sarà costretto a rendersi conto che la credenza popolare è più vera di quanto si creda, diventando suo malgrado testimone di eventi ben più orribili e crudeli di quelli vissuti durante la guerra...” (da cinematografo.it)

lunedì 23 febbraio 2015

Citazioni Cinematografiche n. 85


Lisa: Non ti sono più simpatica? Perché sei libera? Credi di essere libera? Io sono libera. Tu neanche lo sai che cos'è la liberta. Io sono libera! Perché io respiro. Invece tu ti ci strozzerai con la tua mediocre piccola vita del cazzo. Sai ci sono troppi muri nel mondo. Troppi muri contro cui spingere la gente e c'è troppa gente che chiede di essere spinta. Gente che ti implora di essere spinta. Lo capisci? Ti scongiura di spingerla contro il muro e allora io mi domando e continuo a farmi sempre la stessa domanda: Perché nessuno ci mette me con le spalle al muro? Perché nessuno mai allunga la mano e mi strappa fuori la verità e mi dice che sono solo una Puttana e che i miei genitori vorrebbero che fossi morta.
Susanna: Perché tu lo sei già, morta, Lisa. Non interessa a nessuno se tu muori perché è da tanto che sei morta. Il tuo cuore è gelido. Ecco perché continui a tornare sempre qui. Tu non sei libera, hai bisogno di questo posto per sentirti viva. Sei patetica.


(Lisa Rowe/Angelina Jolie e Susanna Kaysen/Winona Ryder in “Ragazze Interrotte”, di James Mangold - 1999)



sabato 21 febbraio 2015

Tramonto di un cuore


Titolo: Tramonto di un cuore
Autore: Stefan Zweig
Traduttore: Berta Burgio Ahrens
Editore: Garzanti - 2015


L’immagine scelta per la copertina (un particolare di “Signora con ventaglio” di Gustav Klimt) potrebbe risultare fuorviante, ma l’ambientazione della storia raccontata (anni 20 del 900) e la comprensibile necessità di attrarre potenziali lettori mi fanno pensare che si riveli adeguata.

La definisco fuorviante perché questo racconto ci mostra e ci descrive, in modo implacabile, duro, ma al medesimo tempo scorrevole e coinvolgente, quanto di più lontano dalla leggerezza e serenità ispirata dalla figura femminile ritratta possa essere vissuto da un uomo.

“Tramonto di un cuore” fin dal suo incipit, che considero uno dei migliori, dei più incisivi che ricordo di aver letto, ci fa entrare nel vortice di pensieri e sensazioni del protagonista, il tarchiato agente di commercio signor Salomonsohn, e del suo autore, l’austriaco Stefan Zweig.

Attenzione alla resa della psicologia del protagonista, sia all’interno della riflessione su sé stesso, sia nella rappresentazione del suo rapporto con gli altri, la moglie e l’adorata figlia in particolare. È proprio la figlia ad innescare l’irreversibile processo di auto annullamento e “abbruttimento” del padre, sconvolto dallo scoprire che la sua “bambina”, quella che gli aveva donato un’altra vita, ha segreti da nascondere e, cresciuta, non rientra più nella sua visione di genitore dedito alla felicità filiale.

Una prova di sintesi drammaturgica che giunge direttamente al lettore ed ai suoi piccoli e grandi “drammi”.



“Una notte, il vecchio Salomonsohn, ricco borghese austriaco in villeggiatura a Gardone, sorprende la figlia mentre esce dalla stanza d'albergo di uno sconosciuto. Padre amorevole, egli ha consacrato ogni sforzo, ogni momento della propria vita ad assicurarle un futuro agiato. Ma ora, ossessionato da immagini di grottesca promiscuità, è incapace di accettare ciò che la sua mente, in un furioso ritornello, continua a ripetergli: sua figlia è cresciuta, è ormai una donna. E più Salomonsohn rifiuta di parlarne, più, dentro di lui, si fa strada un violento senso di rivalsa. Solo, abbrutito, preda di un'avarizia dei sentimenti ancor prima che dei beni materiali, il vecchio padre precipita in un baratro di livida impotenza, incapace sia di recuperare il rapporto con la figlia, sia di chiedere ragione a chi gliel'ha rapita.” (da garzantilibri.it)

venerdì 20 febbraio 2015

Il Viaggiatore e il suo Passato


“Arrivando a ogni nuova città il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva più d’avere: l’estraneità di ciò che non sei più o non possiedi più t’aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti.”

(Italo Calvino - Le città invisibili)

Città - di A. E. Bardinella

martedì 17 febbraio 2015

Mommy (2014)

Cogliendo al volo una serata “libera” e sostenuto dall’entusiasmo della paziente donna che, incautamente, anni fa ha deciso di starmi accanto, ho visto “Mommy” al cinema!

Si può fare un onesto e notevole film d’autore senza che il pubblico se ne renda conto? È possibile rappresentare la realtà, senza filtri, ma allo stesso tempo offrire agli spettatori un melodramma che faccia incontrare gusto europeo e stilemi hollywoodiani? Si può esibire talento, permettendosi anche qualche eccesso di ego?
“Mommy”, del canadese Xavier Dolan, risponde sì a tutte le domande.


Film intenso, denso, che non lascia spazio allo spettatore, lo obbliga all’emozione di vivere quello che gli stessi straordinari interpreti vivono. Asciutto ed immediato come raramente accade, vagamente rassicurante (appena qualche istante) quando è necessario concedere una breve tregua a chi è seduto in platea. Chi invece non può permettersi pause sono i tre protagonisti, considerata l’insistenza con cui Dolan gli rimane appiccicato, con l’inquadratura che si stringe sui visi e le loro intense espressioni. Il formato 1:1, a cui si fa presto l’abitudine dopo le prime scene, lascia spazio, in precisi passaggi, ad un emozionante “panoramico”, per distinguere ed esaltare la distinzione dei momenti e dei vissuti di questi antieroi destinati a cadere e tentare di risorgere, ciclicamente. Una modalità da cinema muto, forse necessaria, che esalta la recitazione della madre, Anne Dorval, del problematico e seccante figlio, Antoine-Olivier Pilon e della familiarmente sensuale Suzanne Clément, ultima componente di un trio tanto improbabile quanto “vero” e aderente ad una condizione narrata e rappresentata con rigore e rispetto.
Anne Dorval
Forse solo Ken Loach e gli inizi di Jane Campion hanno potuto arrivare a tanto, ma quello che qui risulta veramente meritevole di attenzione è la cura nella costruzione della sceneggiatura, tanto efficace e difficile da rendere, da risultare, di contro, l’unica e la più facile da presentare. Un compito arduo che il giovane canadese Dolan assolve con grande merito, poiché la realtà è la cosa più difficile da filmare e far “vivere” gli attori, quasi come se non recitassero, la sfida più grande.



il regista Xavier Dolan


“Un'esuberante giovane vedova, madre di un ragazzo, si vede costretta a prendere in custodia a tempo pieno suo figlio, un turbolento quindicenne affetto dalla sindrome da deficit di attenzione. Mentre i due cercano di far quadrare i conti, scontrandosi e discutendo, Kyla, l'originale, nuova ragazza del quartiere, offre loro il suo aiuto. Assieme, troveranno un nuovo equilibrio, e tornerà la speranza.” (da cinematografo.it)

lunedì 16 febbraio 2015

Citazioni Cinematografiche n. 84

Barone St. Fontanel: Voi siete innamorata e oserei dire, anche, che il vostro è un amore infelice.
Sabrina: Si vede?
Barone St. Fontanel: Senz'altro! Una donna felice in amore lo brucia il soufflé, ma una donna infelice... ahimè! Si dimentica di accendere il forno. Dico bene?
Sabrina: Sì, ma sto cercando di guarire.
Barone St. Fontanel: E perché volete guarire? Ne parlate come se si trattasse di un raffreddore.


(Barone St. Fontanel/Marcel Dalio e Sabrina Fairchild/Audrey Hepburn in “Sabrina”, di Billy Wilder - 1954)




sabato 14 febbraio 2015

14 Febbraio


“…
Vorrei restare per sempre in un posto solo 

per ascoltare il suono del tuo parlare 

e guardare stupito il lancio, la grazia, il volo 
impliciti dentro al semplice tuo camminare 
e restare in silenzio al suono della tua voce 
o parlare, parlare, parlare, parlarmi addosso 
dimenticando il tempo troppo veloce 
o nascondere in due sciocchezze che son commosso. 
Vorrei cantare il canto delle tue mani, 
giocare con te un eterno gioco proibito 
che l' oggi restasse oggi senza domani 
o domani potesse tendere all'infinito 


…”

(Vorrei - Francesco Guccini)






venerdì 13 febbraio 2015

Giallo, Noir & Thriller/19


Titolo: La Voce
Autore: Arnaldur Indriđason
Traduttore: Cosimini Silvia
Editore: Guanda – 2008

Analisi introspettiva, atmosfera molto curata, personaggi che entrano in “punta di piedi” in una trama che sembra procedere un po’ troppo lentamente.
Elementi che potrebbero essere, allo stesso tempo, punti deboli e motivo di successo.
Personalmente ho apprezzato questa indagine dell’agente Erlendur di Reykjavik, sebbene la consideri leggermente al di sotto delle due precedenti che ho letto (“Sotto la città” e “La signora in verde”). L’ambientazione natalizia, in un luogo chiuso sebbene “fecondo” come un hotel, rende molto triste la vicenda, le vicissitudini personali del protagonista e di quella che è la vittima caricano ancora di più di angoscia e tristezza le pagine di questo giallo nordico, ulteriore prova di una certa vitalità e comunque varietà del genere a quelle latitudini.

A mio parere non sarebbe adatto a chi predilige ritmo serrato e un’indagine senza pause, poiché, invece, siamo di fronte ad una serie di indizi che solo verso la fine svelano la loro importanza e il ruolo che hanno nel fine gioco di rimandi tra presente e passato, nell’intricato accumularsi di elementi e notizie che sviano il lettore, riuscendolo nel medesimo istante ad attirarlo. Come già detto l’indagine offre la possibilità per riflessioni profonde sui rapporti familiari, sugli islandesi sulle loro problematiche. Non a tutti potrebbe fare piacere, ma Arnaldur Indriđason scrive così.

Voto: 7+


Arnaldur Indriđason 
Mancano pochi giorni a Natale e nello squallido seminterrato di un grande albergo di Reykjavik viene ritrovato il cadavere di un uomo vestito da Babbo Natale e con i pantaloni abbassati. Si tratta del portiere dell'albergo, che sotto le feste si travestiva per divertire i piccoli ospiti. Nella sua misera stanzetta vengono rinvenuti alcuni vecchi dischi in vinile e un poster di Shirley Temple. L'indagine si rivela molto difficile fin da subito per l'agente Erlendur, costretto a confrontarsi con la serie di grotteschi personaggi che popolano l'albergo, e con il marcio nascosto dietro la facciata di irreprensibilità ed eleganza. Ma la rivelazione più scioccante sarà il passato della vittima, un ex bambino prodigio, solista nel coro delle voci bianche di Hafnarfjòrdur, che aveva anche inciso due quarantacinque giri a tiratura limitata, diventati ora una rarità di inestimabile valore per i collezionisti. (da ibs.it)

giovedì 12 febbraio 2015

Liberati di un peso



“Per vivere, proprio come per nuotare, va meglio chi è più privo di pesi, ché anche nella tempesta della vita umana le cose leggere servono a sostenere, quelle pesanti a far affondare.”

(Apuleio – Sulla magia e in sua difesa)


martedì 10 febbraio 2015

Babycall (2011)


Noomi Rapace non è solo la Lisbeth Salander della Millenium Trilogy, dove peraltro fa la sua bella figura risultando, di fatto, l’unica vera protagonista. È un’attrice vera, anche se un po’ segnata da una certa aura di problematica inquietudine legata ai personaggi interpretati.

Non fa eccezione questo “Babycall”, thriller psicologico probabilmente non completamente riuscito, dove la svedese mette in campo una prestazione degna di nota, tanto da farle meritare il premio come miglior attrice al Festival Internazionale del Film di Roma nel 2011.


La sua interpretazione ben si adatta ad una sceneggiatura di buon ritmo, con momenti dosati di tensione accompagnati da una fotografia che gioca sull’alternanza di chiaro e scuro, luce e buio. La storia tende a perdere forza nel corso della narrazione, esaurendo un bel slancio iniziale, ma è proprio la Rapace a caricarsi il film sulle spalle e renderlo godibile e credibile.

Ci sono vari temi che vengono affrontati: il rapporto madre-figlio; l’ossessione del controllo; la violenza domestica; il problematico confronto fra individui in una società segnata dal sospetto e da un pervasivo grigiore e altro ancora. Proprio questo insieme di temi e tematiche, seppur amalgamate con una certa capacità dal regista Pal Sletaune, rischia di pregiudicare la buona riuscita del film, che risente di una freddezza che ne penalizza fin troppo la visione, anche da parte dello spettatore più avvezzo al genere. Tensione e inquadrature ben riuscite accompagnano fino alla conclusione, dove, coerentemente con il resto del film, è Noomi Rapace a salvarci da eccessive implicazioni psicologiche.

il regista Pal Sletaune


lunedì 9 febbraio 2015

Citazioni Cinematografiche n. 83

Rossella: Voi non siete un gentiluomo!
Rhett: E voi non siete una signora; non è un titolo di demerito, le signore non mi hanno mai interessato.


(Rossella O’Hara/Vivien Leigh e Rhett Butler/Clark Gable in “Via col Vento”, di Victor Fleming - 1939)



domenica 8 febbraio 2015

Al Servizio del Caos - Dylan Dog #341

Qualche giorno fa ho riportato alcune mie riflessioni su Dylan Dog, in particolare basandomi anche sulla lettura dell’ultimo albo in edicola, “Al Servizio del Caos”.
Concludevo quel post “promettendo” di riportare a breve quello che del numero 341 mi era piaciuto.

Ebbene sono rimasto veramente soddisfatto dei disegni, ad opera di Daniele Bigliardo e Angelo Stano. Ci sono varie “splah pages”, una più bella dell’altra, ed altre tavole sono un ottimo esempio di come sia possibile rispettare la tradizione Bonelli pur compiendo opera di aggiornamento di uno schema che ormai risulta stretto per molti disegnatori.

Ho decisamente apprezzato e mi sono goduto il taglio cinematografico dato alle immagini, presumo suggerito da Roberto Recchioni e reso con grande efficacia da Bigliardo. Alcune tavole, con inquadrature ben studiate e “inusuali” nelle serie Bonelli, sono davvero mirabili, in grado di stregare!


Rimane il fatto che la sceneggiatura non mi ha entusiasmato, anche perché lascia solo parzialmente esaudita la voglia di “trame orizzontali”, ma se disegni e tavole di questo tipo continuassero a fare la loro comparsa su Dylan Dog e magari qualche altra testata italiana, ne sarei entusiasta!



sabato 7 febbraio 2015

Cani neri


Titolo: Cani Neri
Autore: Ian McEwan
Traduttore: Susanna Basso
Editore: Einaudi – 1995

Ho apprezzato la riflessione sul rapporto fra i ragazzi, poi adulti, che si innamorano negli anni 40 e si accompagnano durante la loro vita. Somiglianze e vicinanze, discordanze e allontanamenti. Ciò che mi rende ancora più interessante quest'opera è l'analisi, o il tentativo di analisi, il ragionamento su un passaggio storico, quale la "caduta" ed il "crollo" dei governi che si ispiravano, o avrebbero dovuto ispirarsi, al socialismo reale.
I cani neri sono una efficace metafora del male che si è liberato. Male che si è diffuso ed ha invaso l'Europa, ingannando buona parte di noi e di chi ci prospettava un periodo di pace e prosperità per tutti. Avendo letto il libro diversi anni fa, questa sensazione di "profezia" suggerita da parte di Ian McEwan mi si è accentuata.


Jeremy, il protagonista, ha perso i genitori a otto anni in un incidente stradale: da allora è in cerca di sostituti che trova nelle figure di June e Barnard, i genitori della ragazza che ha sposato. Da questo momento il romanzo diventa la storia di June e Barnard. Il loro incontro, il loro amore e la fede di entrambi nell'ideale comunista. Poi la disgregazione del loro rapporto che nasce da inconciliabili modi di credere e vedere la vita. A Jeremy che vuole trovare la chiave di queste due esistenze resterà l'eterno dubitare su chi dei due ha un approccio vincente con la vita. (da IBS.it)

giovedì 5 febbraio 2015

Dylan Dog e il Pop. #341 Al Servizio del Caos



Credo di non sostenere nulla di particolarmente originale scrivendo che Dylan Dog era parte della cultura pop negli anni 90. Contribuiva, in modo sostanziale e con qualche grado di sfrontatezza, a definire cosa rientrasse nel pop. È divenuto un fenomeno di costume, nel senso e nell’accezione più “nobile” dell’espressione. C’erano mode e invaghimenti vari, in campo fumettistico, letterario e culturale ad ampio raggio, ma Dylan Dog comunque rimaneva visibile e “vivo”, dettando in un certo modo “la linea”. Ero giovane e anche un po’ suggestionabile, ma avvertivo la potenza di quegli albi in modo discretamente lucido, non solo sulla base della diffusa consuetudine di acquistarne uscite originali e varie ristampe.



Era genuinamente pop e ci si occupava del fenomeno e dei suoi lettori in modo serio e puntuale, per cui si delineava come una componente imprescindibile per comprendere una parte della cultura, giovanile e non solo, di quegli anni. Riferimenti, ispirazioni, rimandi e citazioni erano a volte evidenti, talvolta nascosti o “sottili”, ma ogni storia assumeva la dignità di un’opera letteraria, artistica e di costume contemporanea.


Nel corso degli anni qualcosa è andato perduto, o solamente si è “diluito”, ma la testata Bonelli con quel nome insolito e riconoscibile è rimasta presente e ha continuato a far parlare di sé, anche se spesso con non troppa benevolenza.



Il sottoscritto già in altre occasioni ha tentato di scrivere del “nuovo corso”, inaugurato sulla “pelle” dell’Indagatore dell’Incubo. Ora, grazie alla lettura del n. 341, “Al Servizio del Caos”, tento di proporre una riflessione sul rapporto fra Dylan Dog e pop.
Da qualche mese le storie proposte, i disegni e le copertine degli albi sono tornate ad infarcirsi in modo massiccio ed evidente di rimandi e riferimenti al pop.
“Al Servizio del Caos” non solo non fa eccezione, ma potrebbe essere preso a modello per illustrare una tendenza, qualcosa che potremmo definire uno stile ed una modalità di gestione della testata e del personaggio.

Facciamo la conoscenza di John Ghost, nuova nemesi di Dylan. Chi pensava di trovarsi di fronte ad un novello Xabaras sarà sorpreso da questo personaggio, che ha tutte le caratteristiche per essere qualcosa di più di un elemento accessorio alla vita dell’inquilino di Craven Road 7. Per essere obiettivi, o almeno provarci, in quest’albo John Ghost risulta un po’ marginale. 

Dopo l’incisiva, sintetica presentazione dello stesso, nobilitata dai disegni di Stano, il personaggio rimane defilato e non sembra si sia riusciti, pur all’interno di una efficace sceneggiatura, a far passare in modo chiaro quale sia il suo ruolo e la portata delle sue azioni e “non azioni” nel corso della storia rappresentata. Anche il buon Dylan sembra più una pedina, soggetta a subire comportamenti, macchinazioni e decisioni di altri. Non si riesce a farsi bastare quello che si vede e si intravede. È un meccanismo, un artificio ormai ben acquisito e che è stato più volte proposto da tante (troppe?) serie TV e fiction, specialmente USA e più o meno recenti. 

Qui risiede il primo elemento degno di nota. Determinati schemi e modalità di gestione mutuati dalla TV hanno impatto e “catturano”, ma per quanto? Soprattutto la scelta di affidarvisi segnala che sono le serie TV, cultura pop evidentemente, ad influenzare Dylan Dog, che rischia di esservi omologato. Non farebbe cultura, quindi, ma, nella migliore delle ipotesi, ne utilizzerebbe, in modo un po’ pedissequo, un elemento.
Inoltre, sempre rimanendo sul n. 341, le diffuse citazioni e richiami al contemporaneo, ai suoi volti e situazioni fanno perdere distinzione e originalità al media fumetto.
Mi spiego: il fumetto non è radio, non è televisione, bensì qualcosa di diverso, vive nel mondo in cui vive il lettore, ma allo stesso tempo è un “luogo” dove viene creato un mondo “altro”, che vuole e può essere estraneo (totalmente o in parte) a quello in cui viviamo, persino “sospeso”, se ci intendiamo sul termine. Dylan Dog, invece, consapevolmente oppure no, sembra intenda abbattere questa  fragile e ideale barriera. Con una certa decisione, tra l’altro, altrimenti non si giustificherebbe l’impressione di essere ancora davanti alla TV mentre leggiamo “Al Servizio del Caos”.


John Ghost va a cena da Gordon Ramsey, Dylan incontra Alan Moore che vive nella casa dove ha passato l’infanzia James Bond, il sistema operativo del telefono protagonista richiama un recente film di Spike Jonze. Attualizzazione del personaggio e del contesto in cui vive, si dice da circa due anni. Ma che Dylan abbia visto “Skyfall” e ne sia anche entusiasta stona un po’ con il suo carattere. Insomma elementi nuovi ed “originali”, ma che potrebbero risultare difficili da gestire nel lungo periodo, ammesso che Dylan Dog possa continuare ad essere una testata seriale classica e non “a stagioni”, come accade, con buoni ed intriganti effetti, con altre storie e “caratteri”.

Dylan Dog, al momento, contiene cultura pop, non la sta facendo. Le frasi più incisive pronunciate da John Ghost sono quelle di Joker ne “Il Cavaliere Oscuro” e anche il nostro Old Boy abbandona, nel suo eloquio, determinate peculiarità proprie e “riconoscibili” che lo rendevano differente e distinto dai personaggi reali.

Un ultimo appunto: “Al Servizio del Caos” rischia di non trovare un equilibrio interno, sia preso singolarmente che all’interno di una serie. Risulta un albo impegnato su temi sociali e filosofici e la critica verso il capitalismo è evidente. Trova spazio il tema della pervasiva diffusione della tecnologia, tale da rendere schiavo chi ne fa uso quotidianamente. Si condanna l’edonismo ed il consumismo, possibile grazie allo sfruttamento di intere popolazioni, viene evidenziato il controllo costante di ogni singolo dato che passa attraverso gli smarthpone. Quasi una storia a tema, con un certo sapore di già visto, al limite della scarsa incisività. Rimane comunque il dubbio che autori e curatori ci stiano ancora prendendo le misure, come si dice, ma avverto la sensazione che si sia alla ricerca di un pubblico “nuovo”, a cui certi meccanismi e strategie vanno maggiormente congeniali rispetto a chi ha cominciato ad acquistare Dylan Dog pagando in lire e lo leggeva durante le ore di latino.


Per le cose che mi sono piaciute mi riservo un altro post.

lunedì 2 febbraio 2015

Citazioni Cinematografiche n. 82


“Gli Irlandesi sono i più negri d'Europa, i Dublinesi sono i più negri di Irlanda e noi di periferia siamo i più negri di Dublino, quindi ripetete con me ad alta voce: "Sono un negro e me ne vanto!" .”


(Jimmy Rabbitte/Robert Arkins in “The Commitments, di Alan Parker - 1992)



domenica 1 febbraio 2015

1° Febbraio - il mio compleanno


“Ma c’è un vecchio proverbio secondo cui la conoscenza che non viene seguita dall’azione è peggio dell’ignoranza. perché se tiri a indovinare e non ci prendi puoi sempre dire, merda, gli dei mi sono avversi. Ma se sai e non fai, vuol dire che in testa hai soffitte e anticamere buie da percorrere avanti e indietro e a cui pensare. Non è mica una cosa sana, produce serate noiose, un eccesso d’alcool e seghe.”

(Taccuino di un vecchio sporcaccione, Charles Bukowski)