Vado al
cinema a vedere un film di Woody Allen un po' con lo stato
d'animo di quando si fa a far visita ad un vecchio parente, uno zio
per esempio, sapendo già cosa cosa ci dirà, cosa ci mostrerà e
anticipando le sue frasi ed i suoi “tic.” Si va dal vecchio zio
perché ci si è affezionati, perché ci fa piacere ed in fondo è
ancora divertente, con le sue raccomandazioni sempre uguali fin da
quando eri un bambino, le sue barzellette che hai sentito decine di
volte e così via. La situazione è simile con Woody Allen, che
avendo ottanta anni effettivamente si avvicina molto ad essere quel
vecchio parente a cui fai visita tutti gli anni. Così qualche giorno
fa ho visto “Un giorno di pioggia a New York”, ultima
fatica cinematografica del regista, che torna nel suo ambiente
ideale, New Yok per l'appunto, Manhattan in particolare.
Già dai
titoli di testa mi sono sentito a mio agio e ben disposto, con il
font sempre uguale da più di quarant'anni, così come quando entri
in casa del parente di cui sopra e riconosci l'odore dei mobili e dei
suoi abiti.
Ma
l'entusiasmo che ancora alberga in me dopo la visione del film vi
assicuro non è dovuto a semplice affetto o condiscendenza,
benevolenza nei confronti di qualcuno in virtù di quanto bene ci ha fatto
in passato nonostante ora non sia più così brillante, ma è
motivato dal fatto che “Un giorno di pioggia a New York” è un
bel film, totalmente e genuinamente “alleniano”, piacevole da
vedere, gustoso da ascoltare e con una serie di spunti di riflessione
da impegnarci diverse serate.
Quella che
ad una prima occhiata, dopo una manciata di minuti, sembra essere una
teen comedy basata su vecchi personaggi rinfrescati e poco altro, si
rivela scena dopo scena come una perfetta rappresentazione di una
idea di cinema, di una visione sulla natura ed il ruolo
dell'intellettuale ed una riflessione sulla morale e la libertà di
pensiero ed azione.
L'elemento
giovanile, appena post adolescenziale, dona sapore e brio ad una
trama per sua natura esile (il tutto si risolve in frenetiche 24 ore)
grazie alla scelta di giovani attori ed alla vivacità dei dialoghi.
Ci si inebria della carica dei protagonisti e della serie di rimandi
e citazioni artistiche, letterarie e cinematografiche, con i due
fidanzati (Elle Fanning e Timothée Chalamet)
che pur costretti nei “tipi” di Allen sanno raggiungere il
pubblico, mentre maggiore libertà sembra aver avuto Selena Gomez,
con il suo personaggio che appare come più vicino alla realtà, meno
imbrigliato nella proiezione che il buon Woody attua sugli altri.
Le
propaggini del regista sono note e ben conosciute in pressoché tutti
i suoi film, questo non fa eccezione, dal momento che abbiamo a che
fare con parlata accelerata, nevrosi, somatizzazioni varie,
distribuite con furbizia ed un pizzico di malizia, ma ovviamente c'è
di più e ci si ritrova contenti e soddisfatti della visione. Fosse
anche solo per il monologo confessione della
madre del giovane protagonista, intellettuale
adolescente attratto dai bassifondi, frequentatore del “demi-monde”,
che si vede e si sente sbattere in faccia una verità che supera ogni
concetto di morale, colpa, merito, castigo o contrappasso. Così
Woody Allen sembra dirsi consapevole di quanto il suo cinema sia
ormai “vecchio”, inadeguato a competere con altre produzioni,
incapace di attirare i nuovi giovani spettatori, ma che accetta
serenamente tutto ciò, come se non gli interessasse, preferendo
coltivare il sogno di poter essere ancora quello zio a cui fai visita
una volta all'anno e che riconosci dall'odore, dalla luce che c'è in
casa sua e dalla musica che ascolta.
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