sabato 30 settembre 2017

La solitudine di chi corre

Dai Belle & Sebastian a Tony Richardson.
Da Gioventù Amore e Rabbia a The Loneliness Of The Middle Distance Runner.


La canzone dei Belle & Sebastian “The Loneliness of the Middle Distance Runner” è quasi omonima del film di Tony Richardson del 1962 “The Loneliness of the Long Distance Runner”, in italiano “Gioventù Amore e Rabbia”.



Il testo della band pop-rock scozzese è un po' triste, non possiede la carica di ribellione e rabbia propria del film, che si inseriva nel filone del battagliero “free cinema”, che negli anni cinquanta e sessanta smosse le acque della cultura britannica.
Più propriamente ne è uno dei prodotti più belli e riusciti, in grado di entrare di diritto a far parte di una sorta di nouvelle vague del Regno Unito, che aprì la strada alla swinging London dei Beatles e allo svecchiamento della cultura britannica in teatro, letteratura e cinema.

Fu effettivamente meno brillante e radicale sul piano delle forme di quanto non sarebbe stata quella francese, ma certamente più solida nel rifiuto del conformismo perbenista e classista. Ebbene Gioventù Amore e Rabbia ha origine da uno degli scrittori più attivi nel periodo, Alan Sillitoe, che riuscì a trasferire nella sceneggiatura il furore proprio del suo duro e acre romanzo (qualche anno fa riedito da Minimum Fax).


Il regista Tony Richardson, coadiuvato dall'intelligente e benemerito lavoro dell'operatore Walter Lassally, che mette in atto un servizio asciutto, senza compiacimenti di sorta per una fotografia sporca ed impastata, crea intorno al personaggio centrale della storia, un giovane delinquente interpretato da Tom Courtenay, un ambiente tetro e sordido al limite dell'immaginabile.

Courtenay è Colin Smith, vissuto soffrendo all'interno di una famiglia che gli è sempre sembrata distante, così come la scuola e le istituzioni in generale. Si ribella, come volevano ribellarsi, ad ogni costo, gli esponenti del “free cinema”. Finito in riformatorio, nel momento in cui si rende conto, prende consapevolezza, reale, della propria realtà, privata e pubblica, di come stia andando incontro al destino deciso dalla società, emblematicamente impersonata dal direttore della struttura in cui è stato inserito, mette in atto una paradossale ribellione, rinunciando ad una fallace ed ingannevole gloria personale.



Il film, per quanto ad una visione odierna potrebbe sembrare datato, forse anche poco equilibrato a causa di un lungo flashback centrale e troppo distante dalle condizioni e situazioni, nonché delle posizioni di molti ragazzi di oggi, si mostra come un racconto con rabbia dei giovani proletari e dei precari di quegli anni, quando era ancora la fabbrica a formare la loro cultura e a nutrire la loro rivolta. Ora invece si nota tra i ragazzi una certa scarsità di visione ed idee, per non per parlare di ideali, schiacciati come sono, come siamo, da incertezza, precarietà, struggente e dannoso individualismo che altro non è che solitudine. Come si nota nel testo della canzone dei Belle & Sebastian. Per cui a rivedere, a ripensare al film di Richardson, si vorrebbe avesse dei corrispettivi nel cinema dei nostri giorni, non sempre totalmente in grado di cogliere la situazione e magari innescare vera consapevolezza, autentica presa di posizione e sana rabbia.

giovedì 28 settembre 2017

Un Vagabondo

IL VAGABONDO

È un tributo o un tradimento quando
Tornando dal dolce per strade solite,
Lascio le tue labbra e gli occhi cercandoti
                  sul viso di un’altra?

Perché cerco quello che già possiedo
E trovo lontano quel che ho vicino?
Non lo so – So soltanto che desidero
                 trovare te infine.

So che l’amore ha tanti focolari
Che la Fame va per vie senza fine
Che il sogno del Bello guida la terra
                  E mi riporta a casa.


Louis Untermeyer

 

lunedì 25 settembre 2017

Citazioni Cinematografiche n.218

"I bisogni per la sopravvivenza fisica sono risolti proprio dalla produzione industriale, che propone adesso come altrettanto necessari il bisogno di rilassarsi, di divertirsi, di comportarsi, di consumare in accordo con i modelli pubblicitari, che rendono appunto manifesti i desideri che ognuno può provare."

(Impiegato/Gino Lavagetto in "Dillinger è morto", di Marco Ferreri - 1969)



sabato 23 settembre 2017

giovedì 21 settembre 2017

Giallo, Noir & Thriller/45

Titolo: Il Bosco di Mila
Autore: Irma Cantoni
Editore: Libromania – 2017



Un bel personaggio Vittoria Troisi, capo commissario romana in servizio a Brescia, dove deve occuparsi della scomparsa di una bambina, Mila Morlupo, figlia e nipote di due degli uomini più in vista in quella ricca città lombarda.

L'ambientazione bresciana non si limita al contesto cittadino, allargandosi alla provincia, dal lago di Garda fino ai paesini di montagna, luoghi chiave della vicenda raccontata, che risulta intrigante e coinvolgente. Grazie alla buona caratterizzazione di gran parte dei personaggi ed all'attenzione dell'autrice Irma Cantoni per le sfaccettature e le peculiarità di un contesto socio-culturale ed umano, il lettore si trova immerso in una realtà in divenire, complessa ed eterogenea, a dispetto di molte fallaci semplificazioni giornalistiche e tipiche di una classe politica, come quella attuale, incapace di leggere la società ed il territorio.

La scomparsa, il rapimento di una bambina a cui seguono morti e drammi familiari, che collegano il presente con gli anni di piombo ed il periodo della Resistenza e del secondo conflitto mondiale. Personaggi che attraversano gli ultimi 70 anni della storia d'Italia, a caratterizzare un'indagine che si sviluppa e risolve in modo originale e con un certo grado di freschezza e brio.



L'autrice, cultrice di Buddismo, inserisce in una narrazione semplice e tutto sommato lineare, con tratti tipici del giallo e del thriller, elementi di storia, di filosofia e di una visione della vita e della morte che fanno sfumare i concetti di bene e male. Attraverso i vari personaggi ed un elemento che solo all'apparenza è meramente fantastico/ultraterreno, la protagonista Vittoria Troisi fa incontrare fatti ed ipotesi, indizi ed intuizioni, azione e riflessione, dando la stessa importanza a quanto viene detto come ai silenzi di chi sa ma non dice. Un carattere per niente bidimensionale, complesso e quindi stimolante, che potrebbe offrire ancora molto ai lettori.


La notte di Santa Lucia è la più lunga dell'anno, una notte magica di trepidante attesa nelle case di Brescia per l'arrivo dei doni che anticipano il Natale. Nella villa dei Morlupo tutto tace, le luci sono spente, nessuno attende regali, ma notizie della piccola Mila, scomparsa quella mattina nel bosco di Mompiano. Le ricerche delle forze dell'ordine e dei volontari che setacciano la zona non si fermano neanche al calar del buio: i Morlupo sono una delle famiglie più ricche e influenti della città. A complicare le cose la scoperta della scomparsa di un'altra compagna di classe di Mila.(da amazon.it)

lunedì 18 settembre 2017

Citazioni Cinematografiche n.217

David Lloyd George: Lavorate alla lavanderia Glasshouse di Bethnal Green anche voi?
Maud: Ci sono nata.
David Lloyd George: Allora vorrei sentire la vostra testimonianza.
Maud: Non so che cosa dire.
David Lloyd George: Anche vostra madre lavora ancora alla lavanderia?
Maud: Dall'età di quattordici anni. Mi teneva legata sulla schiena o sotto alle vasche di rame se dormivo. Lo facevano tutte le donne con i neonati.
David Lloyd George: E il suo capo lo permetteva?
Maud: Lui ti riprendeva al lavoro appena possibile.
David Lloyd George: Lui?
Maud: Il signor Taylor.
David Lloyd George: E vostra madre lavora ancora alla lavanderia?
Maud: È morta. Avevo quattro anni.
David Lloyd George: Capisco.
Maud: Una vasca ribaltata. Ustionata.
David Lloyd George: E vostro padre?
Maud: Non lo conosco.
David Lloyd George: E lavorate per il signor Taylor...
Maud: Mezza giornata dall'età di sette anni, a tempo pieno dai dodici. Non serve un'istruzione per lavare camice. Ero brava con i colletti e a passare il vapore sul merletto. Ci riuscivo bene. Sono diventata capo lavandaia a diciassette anni, capo reparto a venti... Adesso ne ho ventiquattro.
David Lloyd George: Siete giovane per questo lavoro.
Maud: In lavanderia le donne hanno vita breve.
David Lloyd George: E questo perché?
Maud: Vengono i dolori e anche la tosse, dita schiacciate, ulcere alle gambe, ustioni, mal di testa per i vapori... Lo scorso anno una è rimasta avvelenata. Non può lavorare. Polmoni rovinati.
David Lloyd George: E la vostra paga?
Maud: Ci fanno tredici scellini a settimana, signore. Agli uomini invece diciannove. Ma il nostro orario è un terzo più lungo. Loro spesso fanno le consegne perciò stanno all'aria aperta.
David Lloyd George: Per voi il voto che significherebbe, signora Watts?
Maud: Non ho mai creduto di ottenerlo. Non ho pensato a cosa significherebbe...
David Lloyd George: Allora perché siete qui?
Maud: L'idea è che potremmo... che questa vita... che c'è un altro modo di vivere questa vita. Scusate, le mie parole non sono adatte.
David Lloyd George: No, no... La migliore eloquenza è quella che fa ottenere le cose.

(David Lloyd George/Adrian Schiller e Maud Watts/Carey Mulligan in "Suffraggete", di Sarah Gavron - 2015) 



sabato 16 settembre 2017

Dampyr #210 - Il Figlio di Erlik Khan




Dopo l'eccezionalità del Crossover Dampyr/Dylan Dog si torna a gustare un albo interamente dedicato al Cacciatore di Vampiri.
Non si rimane affatto delusi, poiché nel numero 210 della serie, “Il Figlio di Erlik Khan”, si ritrovano gran parte delle caratteristiche della saga che conquistano i lettori.
In breve: azione, mistero, mitologia, flashback intensi, folklore (asiatico in questo caso), due personaggi chiave oltre ad Harlan ed ai suoi soci, ovvero Ann Jurging e Draka.

A ciò si aggiunge il classico “nemico da sconfiggere”, niente meno che il figlio di Erlik Khan del titolo, “l'oscuro Signore della Discordia Kerey Khan”, che a differenza del padre, uno dei villain più amati della serie, recentemente morto dopo essersi redento, è intenzionato a dare filo da torcere al Dampyr.



Per finire, l'epilogo dell'albo dona emozione e rivelazioni per nulla preventivabili.

In tema di sceneggiatura e disegni siamo di fronte ad un gran lavoro svolto da Giorgio Giusfredi e Andrea Del Campo, in grado di inserire ogni singolo evento ed ogni tratto al proprio giusto ed efficace posto, per una coinvolgente ed appagante lettura

 
Mentre Ann Jurging continua a rivivere in sogno la guerra che ha affrontato al fianco Harlan, che ha messo i suoi poteri a dura prova, il Dampyr parte per il Turkmenistan con Tesla, Kurjak e l’infermiere del “Medical Team” Arno Lotsari… Per capire chi guida il terribile esercito di guerrieri vampiri selezionato tra mille battaglie nel corso dei secoli dal Maestro della Notte Erlik Khan, i nostri eroi affronteranno un viaggio che li condurrà alle sorgenti del Male… A conoscere il figlio maledetto del dio dei morti, l’oscuro signore della discordia Kerey Khan! (da sergiobonelli.it)

giovedì 14 settembre 2017

Il Passato riappare




"Quando il passato riappare nella vita di una persona, non lo fa mai sotto le sembianze di un solo viso, ma trascina con sè tutta una catena di amici, di amori, di rimorsi dimenticati".

(Irène Némirovsky, "Il Signore delle Anime", Adelphi - trad. Marina Di Leo)

 

lunedì 11 settembre 2017

Citazioni Cinematografiche n.216

La mia ex-moglie dice che vuole bene a Billy, e io credo di sì. Ma non credo che questo sia il punto qui. Se ho ben capito, quello che più conta qui è solo il bene di nostro figlio, ciò che è meglio per lui. Mia moglie non faceva che dirmi: "Perché una donna non può avere le stesse ambizioni di un uomo?". Forse hai ragione. Forse sono riuscito a capire. Ma per lo stesso principio, vorrei sapere chi ha detto che una donna è un genitore migliore in virtù del suo sesso. Ho avuto tempo di pensarci. Ha a che fare con la costanza, con la pazienze, con l'ascoltarlo, o col fingere di ascoltarlo, se ti manca anche la forza di ascoltarlo. Ha a che fare con l'amore, come diceva lei... e io non so dov'è scritto il fatto che una donna ha... l'esclusiva, il monopolio, e che l'uomo difetta di certi sentimenti che ha la donna. Il bambino ha una casa con me. L'ho fatta meglio che potevo, non è perfetta, io non sono un genitore perfetto, e qualche volta non ho pazienza e... e mi dimentico che lui è un ragazzino... ma sono lì. Io mi alzo la mattina, facciamo colazione, lo accompagno a scuola, torno a casa la sera, mangiamo, parliamo, gli leggo... abbiamo costruito una vita insieme. E ci vogliamo bene. Se tutto ciò verrà distrutto, potrebbe essere irreparabile. Joanna, non glielo fare... non farglielo per la seconda volta. 
(Ted Kramer/Dustin Hoffman in "Kramer contro Kramer", di Robert Benton - 1979)




domenica 10 settembre 2017

Dunkirk (2017) di Christopher Nolan

Un'ora, un giorno, una settimana a Dunkerque.
Dunkirk di Christopher Nolan

Nolan, come in suoi precedenti film, con Dunkirk continua a "giocare" con il tempo ed in parte anche con lo spazio fisico, con risultati stranianti per lo spettatore medio, ma anche per quello maggiormente avvezzo a prove di regia non propriamente ortodosse e ad una narrazione densa di peculiarità e tentavi di imporre uno stile.

Ciò che risulta essere carente in questo film è proprio la componente narrativa, ovvero una delle principali caratteristiche e virtù del racconto per immagini-parole-suoni. 

 
In particolare la parte relativa alla "spiaggia" (1 settimana) non ha pressoché per nulla scrittura, una sceneggiatura che racconti oltre che mostrare. Qui si sente la mancanza del fratello del regista, Jonathan Nolan, che in altri film lo affiancava nella scrittura e sceneggiatura. Meglio le parti "cielo" (1 ora) e "mare" (1 giorno). Buona la prova dei tre attori dotati di parola e trattazione/analisi/sviluppo relativa al personaggio intepretato, tra cui Tom Hardy, il Bane nel film Il cavaliere oscuro - Il ritorno, alla guida di un aereo (forse a Nolan piace farlo recitare con una maschera a coprirgli parte del volto) e Kenneth Branagh, intenso ed essenziale nelle vesti di ufficiale della Royal Navy.



È propriamente un film essenzialmente visivo, che ha il pregio una ottima fotografia con cielo vero e luce naturale, con pochi dialoghi, rigidi e strettamente funzionali, dove all'assenza di parole e racconto si intende supplire con il suono. Il risultato è che la musica di Hans Zimmer è fin troppo pervasiva, il ticchettio di fondo che cresce tende a dar noia, gli archi dopo un po' stancano.

Forse è un originale film di guerra, dove il nemico non si vede se non attraverso le sue armi, oppure non è un film di guerra, nonostante il drammatico episodio raccontato esclusivamente dalla parte britannica, altrimenti è un film di reazionaria propaganda se non un'intensa opera su uomini che attendono, soffrono, si arrangiano, hanno paura, quando non si uniscono in nome dell'amor di Patria e della comunanza e vicinanza umana. Probabilmente è il prodotto di un nuovo (?), differente modo di fare Cinema, che mi risulta distante e freddo, quantomeno poco partecipe di quanto molto mostrato e poco raccontato, ma almeno onesto nel presentare un'idea, una visione registica, ovvero poco incline a certe “furberie” di certi kolossal o presunti tali. Io essenzialmente ritengo che una certa dose di furbizia nello scrivere, girare, montare e quindi raccontare sia necessaria nel momento in cui si sceglie di proporre un film al grande pubblico, poi sta al buon gusto, all'idea autoriale, all'onestà nei confronti dello spettatore dosare e scegliere quale e quanta furbizia utilizzare.


Non sono certo che ci sia un messaggio in quest'opera di Christopher Nolan, magari a lui non interessa inserirlo o trasmetterlo, per cui, di fatto, si differenzia da molti altri film di e sulla guerra, dove pacifismo, oppure denuncia di questo o quell'aspetto di un conflitto o di ogni conflitto, anziché approfondimento sull'aspetto tattico-militare o umano-relazionale, sulla componente civile o su quella in divisa, sui graduati o sui semplici soldati la fa da padrone.

Mi fa piacere avere visto Dunkirk, ma secondo me nel momento in cui Nolan ha messo mano a fatti reali, storici, anziché a storie completamente “sue”, o meglio a sua disposizione, ha risolto con una certa autoreferenzialità e con una involutiva prova di stile, poiché risulta differente da scrivere (facendosi aiutare) e dirigere un film su fatti inventati, dal proporre una storia originale ed in cui dare sfogo a creatività/estro/fantasia e pulsioni personali.

giovedì 7 settembre 2017

Vedere una donna

Egon Schiele. Due donne che si abbracciano, 1915. Museum of Fine Arts, Budapest

“Vedere una donna: solo per un secondo, solo nel breve spazio di uno sguardo, per poi perderla di nuovo, da qualche parte, nell'oscurità di un corridoio, dietro una porta che non ho il diritto di aprire -
ma vedere una donna, e sentire nello stesso istante che anche lei mi ha vista, che i suoi occhi si fissano su dime, interrogativi, come se dovessimo incontrarci sulla soglia dell'ignoto, questa frontiera oscura e malinconica della coscienza...
sì, sentire in questo secondo che anche lei si arresta, quasi dolorosamente interrotta nel flusso dei suoi pensieri, come se i suoi nervi si contraessero, sfiorati dai miei.
Suono, il boy dell'ascensore chiude la porta dietro di me, tengo la testa bassa mentre l'ascensore si ferma nella hall: per un istante la cabina è invasa dal calore e dal rumore, alzo gli occhi, di fronte a me c'è una donna, indossa un cappotto bianco, il suo viso è abbronzato sotto una capigliatura scura, pettinata all'indietro con rudezza maschile, rimango colpita dalla forza, bella e luminosa, del suo sguardo, e ora ci incontriamo, per lo spazio di un secondo, e provo l'irresistibile impulso di avvicinarmi a lei, un impulso ancora più aspro e doloroso di seguire l'immenso ignoto che si desta in me come un desiderio ardente e un invito -
Abbasso gli occhi e arretro di un passo. L'ascensore si ferma. Il boy apre la porta, la donna sconosciuta mi passa accanto con un cenno del capo appena percepibile - ”

(da “Ogni cosa è da lei illuminata”, di Annemarie Schwarzenbach – trad. Tina D'Agostini)



lunedì 4 settembre 2017

Citazioni Cinematografiche n.215

Fai quella cosa che è una specie di rituale, ma non lo è. È che ogni volta che esci dalla tua stanza prendi il pomello della porta e ti prepari per uscire, ma non lo fai. Ti fermi, torni indietro, ti volti verso lo specchio e ti guardi, ma non è uno sguardo del tipo "sono uno schianto". È un po' più del tipo "chi sono veramente?", ti guardi e te lo domandi. È cosi bello!

(Kale Brecht/Shia LaBeouf in "Disturbia", di D.J. Caruso - 2007)



sabato 2 settembre 2017

Arnold Schwarzenegger e Terminator: la serie


Subito dopo i grandi risultati ottenuti nel culturismo, prima di dedicarsi alla soddisfacente carriera politica, Arnold Schwarzenegger si è imposto nel Cinema.




Il primo ruolo di rilievo, particolarmente adatto per il suo fisico e il suo accento fu quello di protagonista in “Conan il Barbaro” (1982). Spinto dalla sceneggiatura di John Milius e Oliver Stone e dalla regia di Milius, Conan rese Schwarzenegger noto a livello internazionale, a cui fece seguito “Conan il distruttore” nel 1984.

Nello stesso anno Schwarzenegger ricoprì per la prima volta il ruolo con cui probabilmente la maggior parte del pubblico lo identifica. Quello del T-800 in “Terminator”, un cyborg assassino che viaggia nel tempo.



Quella di Terminator è fino a questo  momento una pentalogia cinematografica, escludendo la serie TV con protagonista Sarah Connor.


Per diletto e gusto personale propongo brevemente le mie considerazioni sui cinque film, nella speranza che a qualche lettore, sia esso occasionale o abituale, possano interessare, essere utili o anche solo incuriosire.



TERMINATOR (1984), regia di James Cameron

James Cameron, con maestria e furbizia, ma anche evidente passione, mescola scienza e fantascienza, per un thriller ad alta tensione drammatica, dove sia le scene d’azione che quelle di pausa, per “riprendere fiato”, conquistano lo spettatore. Ritmo cadenzato e ben equilibrato nell’uso di effetti speciali e soluzioni tipiche dell’horror movie, scene di violenza ben costruite e niente affatto gratuite. Il dramma etico-morale passa un po’ in secondo piano rispetto alla ricerca dello spettacolo, che risulta comunque apprezzabile, anche perché, forse, l’analisi del rapporto uomo-macchina e la riflessione del progressivo disfacimento della razza umana in nome della tecnologia e del progresso se spinto un po’ di più avrebbe allontanato il pubblico. I personaggi sono costruiti molto bene e gli interpreti azzeccati.

Voto: 8




TERMINATOR 2: IL GIORNO DEL GIUDIZIO (1991), regia di James Cameron

Nettamente inferiore del precedente, di cui perde i pregi ed enfatizza i pochi punti deboli. Puro intrattenimento, senza varianti di rilievo al tema dell’inseguimento. Il buon Arnold ritorna in scena, ma fa la parte del buono, capace di far piangere di commozione il giovane protagonista. Una pura operazione commerciale può anche offrire di meglio, anche se il ritmo è elevato e ci sono scene non male purtroppo il risultato non mi convince. Da vomito il greve moralismo che si percepisce.

Voto: 5,5




 

TERMINATOR 3: LE MACCHINE RIBELLI (2003), regia di Jonathan Mostow


Terzo episodio e nuovo regista. Leggermente superiore al precedente perché, con onestà, si presenta come un’occasione per presentare una serie di effetti speciali, senza l’attenzione alla narrazione ed allo sviluppo dei personaggi. Operazione visiva riuscita, dove la regia sembra volutamente disinteressarsi a pressoché tutto che non sia inquadratura ed effetto penetrante delle immagini. Il film ha dalla sua un certo senso pratico della narrazione, senza velleitarie intenzioni di sviluppo della trama, ed un tutto sommato apprezzabile istrionismo recitativo-registico. Lascia seriamente perplessi la composizione del cast, dove nessun interprete sembra aver colto il personaggio assegnatogli, ma Schwarzenegger viene ricoperto d’oro, saluta e ringrazia, mentre il cattivo, che qui è una “lei”, solletica le fantasie maschili.

Voto: 6





TERMINATOR SALVATION (2009), regia di McG (Joseph McGinty Nichol)

Lontanissimo, nelle intenzioni e nel risultato, dal primo film del 1984. Se in quel caso, ma anche nel secondo film, Cameron era riuscito a realizzare della buona science-fiction, con una non banale riflessione sul ruolo della tecnologia, qui siamo di fronte a quanto di più scarso a livello di costruzione narrativa e forma immagine ci si possa aspettare da un film di guerra. Un imbarazzante Christian Bale è l’esempio di una serie di personaggi mal presentati, mal utilizzati e messi solo nelle condizioni di dare il peggio di sé, in una serie di scene che gridano vendetta per come sono mal costruite. Puro bombardamento di effetti speciali, al cui servizio tutto ruota. Ogni cosa viene banalizzata e si perde il senso di una storia e di quanto in precedenza era stato raccontato e delle stesse modalità con cui era stato presentato.

Voto: 4,5




TERMINATOR GENISYS (2015), regia di Alan Taylor

Il quinto episodio è un prequel, cosa che di per sé non sarebbe necessariamente un male, ma purtroppo sembra mostrarsi come la misura del fatto che ad Hollywood non hanno più idee, voglia di originalità o reale capacità creativa. Come per la serie di film sui supereroi, la sfilza di remake, sequel e prequel, in questo caso si perde ogni minimo elemento positivo di quanto risalente ai due film di Cameron e la si butta totalmente in sparatorie, esplosioni, effetti speciali, che ovviamente da soli non sono sufficienti a fare un buon film. Manca la scrittura, la capacità di proporre qualcosa di sensato, il senso della misura e del buon gusto nella costruzione della trama, delle singole scene e dei dialoghi, in questo nuovo modo di “fare cinema”. Superficialità e disordine nella composizione della vicenda, personaggi sconclusionati, in bilico fra action-movie, vaghi richiami alla fantascienza, scialbi sentimentalismi fuori luogo e frenesie varie. Il nostro Arnold se la cava con il mestiere, a 68 anni supera i più giovani, mentre la protagonista Emilia Clarke (la si vede ne “Il Trono di Spade”) è un altro esempio della moda degli ultimi anni di utilizzare ragazze attraenti nel ruolo di agguerrite combattenti.
Voto: 4,5