Titolo: A casa del diavolo
Autore: Romano de Marco
Editore: Time Crime (Fanucci) 2013
Autore: Romano de Marco
Editore: Time Crime (Fanucci) 2013
“A
Casa del Diavolo” ha il merito di una scrittura agile, a
tratti scattante che facilita la lettura e stimola l’immaginazione del lettore,
senza esagerare ma concedendogli di figurarsi le vicende come se stesse
guardando una serie TV. Non un film noir od un thriller, ma una serie TV, perché
di questa prende sia gli elementi positivi che i limiti.
Ovvero la trama è sufficientemente stimolante,
non particolarmente originale, ma la narrazione in prima persona risulta efficace
ed una scelta indovinata, in particolare perché a condurla non è il solito
detective o rappresentante delle forze dell’ordine, bensì un trentenne borioso
e vanesio. La soggettiva del protagonista, adeguatamente antipatico ma comunque
tollerabile, conduce la lettura e narra la storia con un certo ritmo, non
sincopato ma neanche troppo lento, per un noir
italiano che si fa godere e leggere con piacere. D’altra parte nonostante
qualche colpo di scena non si trova un adeguato approfondimento dei caratteri e
delle loro azioni. Probabilmente l’autore ha così preferito, ma rimane una
certa perplessità di fondo, anche perché forse qualche capitolo in più per
inquadrare meglio il contesto e chi lo anima non avrebbe guastato. Quella che
dovrebbe essere la “conclusione” con relativo disvelamento, se non vera e
propria spiegazione, giunge un po’ frettolosa e a mio avviso artefatta,
nonostante gli elementi per prepararla e farla assaporare ci fossero tutti.
Una fosca vicenda ancora meno che “di provincia”, personaggi ambigui e a
tinte scure, un contesto isolato dove i punti di riferimento sono tanto labili
quanto difficilmente riconoscibili. L’ambientazione è suggestiva ed utilizzata
bene, così da richiamare, come dallo stesso autore esplicitato, esempi mirabili
del cinema italiano, come anche della letteratura di genere, da cui attinge con
competenza. Ma nel momento in cui prova a metterci del proprio si avverte una
vaga debolezza, che comunque non compromette un positivo esito.
Consapevole di non essere
di fronte ad un capolavoro, il lettore può godersi la disavventura di un
direttore di banca, pieno di sé e volgarmente materiale, che viene punito per
la propria arroganza ed egoismo. D’altra parte da un laureato in economia che
aspira a diventare reggente di una prestigiosa filiale di un istituto di
credito non ci si può aspettare che risulti amabile e simpatico o che sia
appassionato di poesia, attratto dalla Storia medievale o anche solo che
apprezzi i valori umani oltre mutui agevolati, tassi d’interesse o transazioni
economiche.
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