venerdì 17 giugno 2016

Giallo, Noir & Thriller/31



Titolo: A casa del diavolo
Autore: Romano de Marco
Editore: Time Crime  (Fanucci) 2013
“A Casa del Diavolo” ha il merito di una scrittura agile, a tratti scattante che facilita la lettura e stimola l’immaginazione del lettore, senza esagerare ma concedendogli di figurarsi le vicende come se stesse guardando una serie TV. Non un film noir od un thriller, ma una serie TV, perché di questa prende sia gli elementi positivi che i limiti.
Ovvero la trama è sufficientemente stimolante, non particolarmente originale, ma la narrazione in prima persona risulta efficace ed una scelta indovinata, in particolare perché a condurla non è il solito detective o rappresentante delle forze dell’ordine, bensì un trentenne borioso e vanesio. La soggettiva del protagonista, adeguatamente antipatico ma comunque tollerabile, conduce la lettura e narra la storia con un certo ritmo, non sincopato ma neanche troppo lento, per un noir italiano che si fa godere e leggere con piacere. D’altra parte nonostante qualche colpo di scena non si trova un adeguato approfondimento dei caratteri e delle loro azioni. Probabilmente l’autore ha così preferito, ma rimane una certa perplessità di fondo, anche perché forse qualche capitolo in più per inquadrare meglio il contesto e chi lo anima non avrebbe guastato. Quella che dovrebbe essere la “conclusione” con relativo disvelamento, se non vera e propria spiegazione, giunge un po’ frettolosa e a mio avviso artefatta, nonostante gli elementi per prepararla e farla assaporare ci fossero tutti.

Una fosca vicenda ancora meno che “di provincia”, personaggi ambigui e a tinte scure, un contesto isolato dove i punti di riferimento sono tanto labili quanto difficilmente riconoscibili. L’ambientazione è suggestiva ed utilizzata bene, così da richiamare, come dallo stesso autore esplicitato, esempi mirabili del cinema italiano, come anche della letteratura di genere, da cui attinge con competenza. Ma nel momento in cui prova a metterci del proprio si avverte una vaga debolezza, che comunque non compromette un positivo esito.


Consapevole di non essere di fronte ad un capolavoro, il lettore può godersi la disavventura di un direttore di banca, pieno di sé e volgarmente materiale, che viene punito per la propria arroganza ed egoismo. D’altra parte da un laureato in economia che aspira a diventare reggente di una prestigiosa filiale di un istituto di credito non ci si può aspettare che risulti amabile e simpatico o che sia appassionato di poesia, attratto dalla Storia medievale o anche solo che apprezzi i valori umani oltre mutui agevolati, tassi d’interesse o transazioni economiche.


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