venerdì 10 febbraio 2017

Sussurri e Grida (1972)


Si può definire la tematica dei film di Ingmar Bergman perlomeno limitata, poichè, di fatto, verte pressochè esclusivamente sulla difficoltà, forse l'impossibilità dell'uomo di realizzare un'autentica comunione con i suoi simili, con il Divino e perciò, infine, con sè stesso.

Ciò che fa la differenza e che quindi ci autorizza a considerare il regista svedese un autentico maestro, è la serie di variazioni sul tema, tanto che anche film che ad una prima analisi sembrano molto simili, forse addirittura ripetitivi, rivelano allo spettatore che abbia la necessaria calma e la giusta disposizione d'animo, spunti e suggerimenti sempre nuovi.


Non fa naturalmente eccezione "Sussurri e Grida", attraverso il quale Bergman presenta tale tema tramite il dolore ed il trauma cui sono sottoposte quattro donne, che si trovano riunite in una villa dotata di un grande parco all'inizio del 900.
Tre di loro sono sorelle, una è la domestica a servizio presso la villa. Una delle sorelle, Agnese, sta morendo tra terribili sofferenze, bisognosa delle cure che le altre due non riescono o non intendono offrirle, chiuse ed impermeabili come sono, una, Karin, in una autopunitiva nevrosi, l'altra, Maria,  nella sua fatua leggerezza, che si riversano nel rapporto con gli uomini ed il loro corpo.
Questo perché, come si diceva, nella variazione specifica dell'opera sul tema, il film è anche una esposizione sul rapporto che ognuna di queste donne ha con il proprio corpo. Agnese non ha più il controllo sul suo, divenutole una trappola insopportabile, mentre Karin, pur non malata, vive come se lo fosse, odiando la propria corporeità (come viene efficacemente mostrato), specie in rapporto al marito. Non è da meno Maria che pur mostrandosi più solare, maggiormente carnale, si serve della propria bellezza, segnando la sua relazione con il marito e gli amanti con la menzogna e la superficialità.
Quindi il corpo di fronte al disfacimento fisico e la morte e al terribile interrogativo se alla dissoluzione della corporeità, malata, mutilata o distorta nell'essere agita, corrisponda una analoga dissoluzione, distruzione dell'anima. In altre parole se esista qualcosa oltre la morte, se esista un'anima e dove finisca una volta conclusasi la vita.

Fin qui potrebbe sembrare una semplice variazione, come si è detto, magistralmente supportata da lunghe dissolvenze in chiusura ed in apertura, con le tonalità del rosso a far da contraltare alle vesti bianche. Ma interviene un altro elemento, ad "evitare" che il tutto possa risolversi in un "interno" alla Strinberg. Ovvero la quarta donna: Anna è il personaggio che permette un salto espositivo e dialettico, aggiungendo qualità e ulteriore profondità ad un'opera prettamente bergmaniana.
Lei è l'unica ad occuparsi di Agnese sempre e comunque, senza nulla chiedere in cambio. L'unica a porsi, in modo sinceramente legato al suo essere credente e allo stesso tempo pragmatica e pratica delle vicende della vita, di fronte alla morte con amore, tenerezza e conforto.

Una pietà di fronte al dolore ed alla morte che viene rappresentata attraverso una delle immagini più belle del film. Anna accoglie Agnese sul proprio grembo, come una Maria fa con il proprio figlio morto. Una "Pietà" al femminile quindi, nel rovesciamento dell'iconografia cristiana, ovvero con Anna/Maria con il seno scoperto e Agnese/Cristo totalmente coperta dai lenzuoli e dal corpo di chi l'accoglie.

Le attrici sono superbe.
Harriet Andersson (Agnese) incontra maggiormente i miei personali favori, per la sua incredibile capacità di andare oltre l'obiettivo e donare umanità e calore ad ogni inquadratura.

Non sono ovviamente da meno Ingrid Thulin (Karin), Liv Ullman (Maria) e Kari Sylwan (Anna), che insieme alla già citata Andersson riescono a recitare al meglio i propri caratteri, con in più l'umiltà di non prevaricare l'una sull'altra.



Un'ultima annotazione per gli interni, con le ampie sale, le tappezzerie ed i drappi rossi, i mobili antichi, e gli esterni, ovvero il giardino, il prato e gli alberi secolari, esaltati dalla essenziale fotografia premiata con l'Oscar.

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