TramaIrlanda, 1952. L'adolescente Philomena viene mandata in convento per
essere 'riportata sulla retta via', poiché è rimasta incinta. Ancora molto
piccolo, il bambino viene dato in adozione a una benestante famiglia americana.
Da allora, Philomena non si è data pace e ha speso cinquanta anni in inutili
ricerche. Grazie all'incontro con il giornalista Martin Sixsmith, incuriosito
dalla sua storia, la donna si imbarcherà in un'avventura che la porterà in
America dove scoprirà la straordinaria storia di suo figlio...
Negli anni passati il Cinema britannico
riusciva a parlare del contemporaneo, di sè e delle vicende che si svolgevano
nel paese della regina Elisabetta II pressoché esclusivamente attraverso le
opere di Ken Loach e Michael Winterbottom, ma anche di Mike
Leigh.
Tale capacità di rappresentazione e autorappresentazione
ultimamente è da imputare a Stephen Frears, prima con “The Queen”
e poi con “Philomena”, in questi giorni nelle sale, dopo la
partecipazione al Festival di Venezia, dove purtroppo hanno preferito premiare
un documentario piuttosto che questo straordinario, intenso ed emozionante
film.
“Philomena” presenta una immensa Judi Dench, attrice
sorprendente per autorevolezza, intensità, tempi recitativi e mimici perfetti,
affiancata da un altrettanto bravo Steve Coogan, comico tv (come a
confermare che dietro ogni “buffone” c’è un talento drammatico che aspetta solo
di esprimersi).
La sceneggiatura dello stesso Coogan e
di Jeff Pope è calibrata alla perfezione, alternando momenti
drammatici e commoventi a brevi e riusciti momenti “leggeri”, dove i
tratti comici lasciano prendere fiato quel tanto che basta per poter seguire la
storia, vera e vissuta, di una donna irlandese e del profondo amore che prova
per un figlio crudelmente portatole via ancora bambino e che lei, ormai
anziana, cerca di ritrovare al di là dell’oceano, in quegli Stati Uniti meta
della diaspora degli “uomini e donne dell’isola smeraldo”.
I due protagonisti (la Dench e Coogan) funzionano
insieme alla perfezione, presentando allo spettatore due caratteri tanto lontani tra loro,
tanto differenti da riuscire abilmente a mescolare humour e pathos, ironia e
commozione, speranza e dolore.
Questo anche grazie alla regia attenta,
astutamente classica e quasi invisibile, perciò maledettamente efficace, di Stephen
Frears, in ottima forma e in grado di evitare qualsiasi concessione alla
“Tv del dolore” ed ai sentimentalismi da accatto. Il regista, messo da parte il
sarcasmo, i toni taglienti e la
“cattiveria” di precedenti lavori (i consigliati “Rischiose abitudini” o
“Tamara Drewe” ad esempio), ci dona un film quasi ovattato, aderente
alla realtà ma rispettoso dei protagonisti e dello spettatore, che viene
accolto con garbo e tatto in una vicenda privata, esposta con maestria e senso
del limite, in grado di riflettere e far riflettere, emozionare e farsi
portatore non solo di una storia, ma anche di tratti umani tanto vicini a noi
da far quasi male.
Le lacrime fanno capolino, le emozioni non mancano e sono
di quelle che lasciano il segno e si fanno ricordare.
Stephen Frears |
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