Un film nel segno dell'America di Obama, da vedere negli anni dell'America di Trump.
Martin
Luther King Jr. non aveva ancora avuto un'opera cinematografica a
lui dedicata. Malcolm X era stato omaggiato da Spike Lee
con il controverso e discusso film del 1992, mentre il pastore di
Atlanta, autentica icona della non violenza ha in pratica dovuto
attendere fino al 2014, quando, sull'onda e nel segno dell'America
Obamiana, la regista Ava DuVernay ha diretto e proposto al
pubblico il suo “Selma – La Strada per la Libertà”.
I fatti sono
quelli legati alla nota marcia, quando nel 1965 un gruppo di
coraggiosi manifestanti, guidati appunto da Martin Luther King Jr.,
per tre volte tentò di portare a termine una marcia pacifica in
Alabama, da Selma a Montgomery (capitale dello Stato), con
l'obiettivo di rendere veramente attivo il diritto umano al voto
per i negri, come ancora allora venivano indicati. Infatti
nonostante sulla carta il diritto al voto fosse garantito dalla
legge, la realtà, specie negli Stati del sud dell'Unione, era ben
diversa, come ci viene drammaticamente mostrato nel film. Gli scontri
scioccanti e la trionfante marcia finale portarono infine il
Presidente Lyndon B. Johnson a firmare, il 6 agosto di quell'anno, lo
storico Voting Rights Act.
Scongiurato
con intelligenza il rischio di un'opera meramente
agiografica, “Selma – La Strada per la Libertà”, si fa
vedere ed apprezzare, oltre che per la ricostruzione di un clima
politico-sociale, della cronaca di quei giorni e degli avvenimenti in
sé, anche per la scelta di presentare il dottor King come un uomo,
con le sue debolezze, i suoi timori ed incertezze, alla pari con le
sue straordinarie qualità di oratore, guida di un movimento e nel
ruolo di pastore protestante.
Allo stesso
tempo, con onestà storica e narrativa, il movimento da lui
condotto non viene mostrato come monolitico e omogeneo, bensì ne
vengono mostrate le diverse anime, i vari volti che insieme a King
hanno reso possibile la conquista e l'affermarsi di diritti civili,
ai nostri occhi basilari ed imprescindibili per una democrazia
veramente degna di tale nome, ma negli Stati Uniti degli anni 60
ancora tutti da conquistare e difendere, specie per le minoranze come
gli afroamericani, termine che noi, ora, utilizziamo. Un film forse
non propriamente collettivo, comunque non un “one man show”,
che forse anche per questo risulta poco coinvolgente a livello
emotivo, con una recitazione composta e corretta che limita i vari
bravi e apprezzabili attori e li sacrifica in nome di uno stile
registico e compositivo che punta alla sobria ricostruzione ed alla
celebrazione di un periodo, autocelebrandosi appunto in quanto creato
e proposto quasi interamente da neri.
Diversi i
momenti melodrammatici, così come varie sono le scene
“opportunamente furbe”, che vanno incontro allo spettatore per
arruffianarsene il consenso, ma la regista DuVernay
qua
e là dimostra
di saperci fare, in particolare nella ricostruzione dei fatti legati,
emblematicamente, al ponte che conduce a Selma, teatro dei pestaggi
più duri perpetrati dalle forze dell'ordine a danno dei
manifestanti, massacrati senza ritegno.
Mi permetto
di esprimere un nota di disappunto per la scelta, verso la
conclusione del film, di presentare efficaci e coinvolgenti scene di
repertorio, poiché a quel punto, fatalmente, data la già citata
scelta registica e di recitazione, la realtà surclassa la
ricostruzione e l'opera perde qualche punto in materia puramente
cinematografica.
Un film
obamiano, che forse risulterà maggiormente godibile (utile?)
negli anni dell'America di Donald Trump, del revanscismo e
dell'oltranzismo razzista di una parte non secondaria dei suoi
sostenitori ed elettori.
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