venerdì 11 gennaio 2019

Nicole Kidman per un Ritratto di Signora


 


Per molti di noi, ora, risulta normale considerare Nicole Kidman una delle più note attrici viventi, molto apprezzata per le sue interpretazioni e per la non comune capacità di spaziare fra generi e ruoli ricoperti. Non ci meraviglia ammirarla in un film d'azione oppure godere della sua bravura in un dramma in costume, ci sembra allo stesso tempo apprezzabile vederla in tutto il suo splendore da cinquantenne di cui vengono esaltate le virtù estetiche, così come siamo pronti a gustare la sua recitazione sotto un pesante trucco che, al contrario, la renda molto meno attraente.

Tutto questo dopo circa trent'anni di carriera cinematografica. Ma fino alla metà degli anni 90 la Kidman aveva recitato in una manciata di film, alcuni dei quali non propriamente memorabili, sebbene qualche applauso se lo fosse comunque meritato. Sembra perciò evidente come nel 1995 la regista neozelandese Jane Campion abbia avuto una felice quanto sorprendente intuizione nell'affidarle il ruolo da protagonista nel suo “Ritratto di Signora”.



Lo definirei bellissimo, nonostante qualche elemento irrisolto, perché la Campion non si limita ad un classico film in costume, bensì partendo da e rispettando molto il romanzo originale di Henry James giunge a proporre allo spettatore una splendida narrazione ed una intensa e complessa messa in scena, che trascende ogni residua rappresentazione femminista della storia per rendere giustizia ad una donna, ad “una di noi” come dichiarato all'inizio del film. Una messinscena che tocca la complessità sociale della tarda epoca vittoriana per veicolare il racconto e le immagini di una riflessione turbolenta ed in movimento di una esistenza e di una psicologia. Femminile poiché la protagonista è Isabel Archer, giovane americana in viaggio in Europa presso parenti inglesi, che per la sorpresa di tutti si trova a rifiutare più proposte di matrimonio in nome di un suo desiderio di esperienze e libertà. Ma anche maschile attraverso le figure del cugino malato di tubercolosi e dell'uomo, Gilbert Osmond, che poi lei sposerà, nonostante gli avvertimenti del primo. Nuovamente femminile, ma di una femminilità diversa con l'entrata in scena di madame Merle che insieme ad Osmond, con cui intrattiene un torbido sodalizio, costruisce una prigione di relazioni e finanche fisica attorno a Isabel. Lei che si trasforma in un’oscura signora imprigionata in una vita mondana che mai ha veramente desiderato, mentre il marito le costruisce intorno una gabbia gelida e sadica. 

 

Si giunge così a notare come Jane Campion dia vita ad un universo narrativo in cui il denaro, la proprietà, è il motore quasi esclusivo delle sue dinamiche, mentre persone e orizzonti esistenziali vanno incontro a una totale “cosificazione” (come forse avrebbe detto Sartre). La regista quindi parte dal rapporto fra “nuova” America e “vecchia” Europa, contrapposte fra vitalità e decadenza, velocità e stagnazione tecnica e morale (tema caro a James), per poi attraverso le magnifiche sorti della rivoluzione industriale, giungere alla nevrosi di Isabel Archer prigioniera di mobilie e fastose vesti. Ma ancor più schiacciante è il rapporto “cosificante” tra i vari personaggi, molti dei quali cercano di appropriarsi rapacemente dell’esistenza di qualcun altro.

Molteplici sono le scene ed innumerevoli i dettagli che evidenziano tutto ciò, senza che il ritmo e l'eleganza del film ne risultino compromessi, al punto che, come detto, la Campion va ben oltre il film in costume. Ad eccezione di qualche dialogo non del tutto azzeccato ed il rimanere in più di un'occasione in bilico fra onirismo e calligrafismo d'ambientazione, qui si viaggia in direzione di approfondimenti e riflessioni sulle psicologie, le perversioni, le malattie e le nevrosi di una classe e dei suoi caratteri. Un mondo che va perdendosi, sgretolandosi con le sue stesse mani e per mezzo delle sue stesse peculiarità che ritiene averne fatto la fortuna. Ad ulteriore prova della qualità dell'opera si nota come Ritratto di signora trovi non solo nella sceneggiatura e nel suo ampio respiro narrativo una qualità indubbia, ma che infine la direzione degli attori si sveli pienamente come la sua chiave di volta espressiva.

La Campion dà vita a personaggi vibranti e appassionanti, con una menzione speciale per l’indimenticabile madame Merle di Barbara Hershey, un ruolo fantastico al servizio di un’enorme prova attoriale. E al contempo l’autrice sceglie di conservare l’ampia portata narrativa del romanzo ottocentesco, seguendo le vicende nel loro dipanarsi su molti anni, con conseguenti evoluzioni e involuzioni nei molti personaggi.
A questo punto si torna da dove si era partiti con queste righe, ovvero a Nicole Kidman, tanto efficace e sorprendente, allora in quanto felicissima sorpresa, al giorno d'oggi come gusto della prova attoriale, che riesce a rappresentare l'evoluzione (involuzione?) del suo personaggio.
Isabel, che dopo il matrimonio approda alle tetre vesti di lutto per il figlio e alla fisicità di una statua inerte in vita, una vera e propria musealizzazione durante noiosi ricevimenti mondani. In mezzo a tale ricchezza espressiva la Kidman raccoglieva una delle sue prime occasioni per mettersi in mostra come attrice a tutto tondo, uscendone più che bene. Forse avrebbe raccolto ancora più consensi e se ne ricorderebbe meglio la prova se più di lei non avessero colpito le recitazioni dei cosiddetti comprimari, dal sofferto Ralph di Martin Donovan alla già ricordata Barbara Hershey, mentre John Malkovich risulta fin troppo prevedibile, rifacendo se stesso ne “Le Relazioni Pericolose” sebbene lo faccia ineccepibilmente bene.


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