Per
molti di noi, ora, risulta normale considerare Nicole Kidman
una delle più note attrici viventi, molto apprezzata per le sue
interpretazioni e per la non comune capacità di spaziare fra generi
e ruoli ricoperti. Non ci meraviglia ammirarla in un film d'azione
oppure godere della sua bravura in un dramma in costume, ci sembra
allo stesso tempo apprezzabile vederla in tutto il suo splendore da
cinquantenne di cui vengono esaltate le virtù estetiche, così come
siamo pronti a gustare la sua recitazione sotto un pesante trucco
che, al contrario, la renda molto meno attraente.
Tutto
questo dopo circa trent'anni di carriera cinematografica. Ma fino
alla metà degli anni 90 la Kidman aveva recitato in una manciata di
film, alcuni dei quali non propriamente memorabili, sebbene qualche
applauso se lo fosse comunque meritato. Sembra perciò evidente come
nel 1995 la regista neozelandese Jane Campion abbia avuto una
felice quanto sorprendente intuizione nell'affidarle il ruolo da
protagonista nel suo “Ritratto di Signora”.
Lo
definirei bellissimo, nonostante qualche elemento irrisolto, perché
la Campion non si limita ad un classico film in costume, bensì
partendo da e rispettando molto il romanzo originale di Henry
James
giunge a proporre allo spettatore una splendida narrazione ed una
intensa e complessa messa in scena, che trascende ogni residua
rappresentazione femminista della storia per rendere giustizia ad una
donna, ad “una di noi” come dichiarato all'inizio del film. Una
messinscena che tocca la complessità sociale della tarda epoca
vittoriana per veicolare il racconto e le immagini di una riflessione
turbolenta ed in movimento di una esistenza e di una psicologia.
Femminile poiché la protagonista è Isabel Archer, giovane americana
in viaggio in Europa presso parenti inglesi, che per la sorpresa di
tutti si trova a rifiutare più proposte di matrimonio in nome di un
suo desiderio di esperienze e libertà. Ma anche maschile attraverso
le figure del cugino malato di tubercolosi e dell'uomo, Gilbert
Osmond, che poi lei sposerà, nonostante gli avvertimenti del primo.
Nuovamente femminile, ma di una femminilità diversa con l'entrata in
scena di madame Merle che insieme ad Osmond, con cui intrattiene un
torbido sodalizio, costruisce una prigione di relazioni e finanche
fisica attorno a Isabel. Lei che si trasforma in un’oscura signora
imprigionata in una vita mondana che mai ha veramente desiderato,
mentre il marito le costruisce intorno una gabbia gelida e sadica.
Si
giunge così a notare come Jane Campion dia vita ad un universo
narrativo in cui il denaro, la proprietà, è il motore quasi
esclusivo delle sue dinamiche, mentre persone e orizzonti
esistenziali vanno incontro a una totale “cosificazione” (come
forse avrebbe detto Sartre). La regista quindi parte dal
rapporto fra “nuova” America e “vecchia” Europa, contrapposte
fra vitalità e decadenza, velocità e stagnazione tecnica e morale
(tema caro a James), per poi attraverso le magnifiche sorti
della rivoluzione industriale, giungere alla nevrosi di Isabel Archer
prigioniera di mobilie e fastose vesti. Ma ancor più schiacciante è
il rapporto “cosificante” tra i vari personaggi, molti dei quali
cercano di appropriarsi rapacemente dell’esistenza di qualcun
altro.
Molteplici
sono le scene ed innumerevoli i dettagli che evidenziano tutto ciò,
senza che il ritmo e l'eleganza del film ne risultino compromessi, al
punto che, come detto, la Campion va ben oltre il film in costume. Ad
eccezione di qualche dialogo non del tutto azzeccato ed il rimanere
in più di un'occasione in bilico fra onirismo e calligrafismo
d'ambientazione, qui si viaggia in direzione di approfondimenti e
riflessioni sulle psicologie, le perversioni, le malattie e le
nevrosi di una classe e dei suoi caratteri. Un mondo che va
perdendosi, sgretolandosi con le sue stesse mani e per mezzo delle
sue stesse peculiarità che ritiene averne fatto la fortuna. Ad
ulteriore prova della qualità dell'opera si nota come Ritratto
di signora trovi
non solo nella sceneggiatura e nel suo ampio respiro narrativo una
qualità indubbia, ma che infine la
direzione degli attori si sveli pienamente come la sua chiave di
volta espressiva.
La
Campion dà vita a personaggi vibranti e appassionanti, con una
menzione speciale per l’indimenticabile madame Merle di Barbara
Hershey, un ruolo
fantastico al servizio di un’enorme prova attoriale. E al contempo
l’autrice sceglie di conservare l’ampia portata narrativa del
romanzo ottocentesco, seguendo le vicende nel loro dipanarsi su molti
anni, con conseguenti evoluzioni e involuzioni nei molti personaggi.
A
questo punto si torna da dove si era partiti con queste righe, ovvero
a Nicole Kidman, tanto efficace e sorprendente, allora in quanto
felicissima sorpresa, al giorno d'oggi come gusto della prova
attoriale, che riesce a rappresentare l'evoluzione (involuzione?)
del suo personaggio.
Isabel, che dopo il matrimonio approda alle tetre vesti di lutto per il figlio e alla fisicità di una statua inerte in vita, una vera e propria musealizzazione durante noiosi ricevimenti mondani. In mezzo a tale ricchezza espressiva la Kidman raccoglieva una delle sue prime occasioni per mettersi in mostra come attrice a tutto tondo, uscendone più che bene. Forse avrebbe raccolto ancora più consensi e se ne ricorderebbe meglio la prova se più di lei non avessero colpito le recitazioni dei cosiddetti comprimari, dal sofferto Ralph di Martin Donovan alla già ricordata Barbara Hershey, mentre John Malkovich risulta fin troppo prevedibile, rifacendo se stesso ne “Le Relazioni Pericolose” sebbene lo faccia ineccepibilmente bene.
Isabel, che dopo il matrimonio approda alle tetre vesti di lutto per il figlio e alla fisicità di una statua inerte in vita, una vera e propria musealizzazione durante noiosi ricevimenti mondani. In mezzo a tale ricchezza espressiva la Kidman raccoglieva una delle sue prime occasioni per mettersi in mostra come attrice a tutto tondo, uscendone più che bene. Forse avrebbe raccolto ancora più consensi e se ne ricorderebbe meglio la prova se più di lei non avessero colpito le recitazioni dei cosiddetti comprimari, dal sofferto Ralph di Martin Donovan alla già ricordata Barbara Hershey, mentre John Malkovich risulta fin troppo prevedibile, rifacendo se stesso ne “Le Relazioni Pericolose” sebbene lo faccia ineccepibilmente bene.
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