“Dov’è che non ce n’era. Se volevamo andare
nell’entroterra triestino, dovevamo passare dalla zona A alla zona B. Se
volevamo continuare verso Lubiana, c’era di nuovo un confine. Dappertutto
esibizione di documenti, controlli. Dal sedile posteriore della nostra auto,
dove spesso me ne stavo mezzo addormentata e avvolta in una coperta, scorgevo
finanzieri, soldati che salutavano. Transenne si chiudevano e si riaprivano. A
volte un indecente rovistio nelle valigie. Mi avviluppavo più addentro nella
mia coperta. Eppure, non appena quella strana procedura era terminata, mi
guardavo intorno: Cosa c’era di diverso di là dal confine? Forse che gli alberi
erano più grandi, forse che le persone avevano una faccia più cordiale? E forse
che non capivo anche quel che dicevano?
Ambivalenti, questi confini. Provocavano una reazione di
sorpresa, di inquietudine, di timore, però avevano anche un loro fascino. Li
vivevo come punti di tensione, che risvegliavano la mia curiosità. Per un verso
creavano delle barriere fra il consueto e l’inconsueto, che spingevano a
scostare la tenda, a guardare attraverso il buco nello steccato, a spiare oltre
le transenne. Per un altro verso erano varchi, punti di frizione e di contatto.
Intuivo il loro segreto, percepivo però istintivamente anche la loro
relatività.”
(Il mare che bagna i pensieri, di Ilma
Rakusa – Sellerio – trad. Mario Rubino)
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