martedì 25 febbraio 2020

Da John a John a Pesaro nel 1998

Più di venti anni fa una ragazza mi invitò ad accompagnarla ad un concerto di John Scofield, il chitarrista jazz statunitense. Ci siamo goduti la musica e l'esibizione comodamente seduti sulle poltroncine del Teatro Rossini di Pesaro. All'uscita l'ora non era delle più tarde ed il caso ha voluto che, proprio in quei giorni, si svolgesse un festival cinematografico poco distante. Ero molto entusiasta all'idea di continuare la serata e così riuscii a convincere la ragazza in questione ad accettare di vedere un film nell'ambito della rassegna dedicata a John Cassavetes.
All'interno della produzione dell'attore e regista newyorkese di origine greca quella sera proiettavano “Shadows-Ombre”.
Fu una folgorazione! Avevo già visto film del neorealismo italiano, mi ero timidamente approcciato a Cesare Zavattini, ma non mi aspettavo di vedere quello che sarebbe apparso sullo schermo.
Non mi concentro ora sulle tematiche del film, sulle problematiche e questioni etico e sociali affrontate, ma brevemente espongo e trasmetto le emozioni che ancora oggi sento ripensando alle immagini ed alla musica, strettamente collegate e molto più che accompagnamento l'una delle altre.
Mi sembrava tutto un inno alla vita ed alla vitalità, pur nella gravità e serietà delle situazioni rappresentate. Immaginate che effetto poteva fare ad un ragazzo di 22 anni, fondamentalmente imbranato e poco audace, quel susseguirsi di volti, voci, corpi, musiche di Mingus, dialoghi “veri” e suoni reali.


Cassavetes segue gli attori, in gran parte non professionisti, che il più delle volte improvvisano senza neanche seguire molto le scarne indicazioni. In alcuni momenti sembra pedinarli nel loro vagare per New York e nei salotti e cafè che frequentano, inviandoli allo spettatore per quanto sono, con una fotografia che alterna luci e buio, solarità e ombre, nel loro vivere e poco altro.



Ombre” è un film di libertà, dove si incontrano arti ed espressioni, musiche e filosofie, letteratura e vita. Una forma di rappresentazione spontanea, in divenire, dove mi sembrava che il processo fosse più importante del prodotto, con una fondamentale instabilità che rendeva quest'ultimo non definitivo, ma in divenire appunto.
Non un semplice lavoro sull'improvvisazione, concetto su cui il film è costruito, bensì una fatica fisica, recitativa e di vita che esalta i processi di interazione, di analisi dei conflitti. L’improvvisazione perciò, ribaltando una visione brechtiana, porta al cinema un ragionamento sul regista come capocomico, come ai tempi di Shakespeare o di Pirandello, come nel caso di Cassavetes, che ci inserisce molto anche della sua vita e della sua esperienza personale, mettendo e mettendosi in scena per una storia in un ambiente di artisti, amici, parenti in cui realmente si trovava.

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