Più di
venti anni fa una ragazza mi invitò ad accompagnarla ad un concerto
di John Scofield, il chitarrista jazz statunitense. Ci siamo goduti
la musica e l'esibizione comodamente seduti sulle poltroncine del
Teatro Rossini di Pesaro. All'uscita l'ora non era delle più
tarde ed il caso ha voluto che, proprio in quei giorni, si svolgesse
un festival cinematografico poco distante. Ero molto entusiasta
all'idea di continuare la serata e così riuscii a convincere la
ragazza in questione ad accettare di vedere un film nell'ambito della
rassegna dedicata a John Cassavetes.
All'interno
della produzione dell'attore e regista newyorkese di origine greca
quella sera proiettavano “Shadows-Ombre”.
Fu una
folgorazione! Avevo già visto film del neorealismo italiano, mi ero
timidamente approcciato a Cesare Zavattini, ma non mi aspettavo di
vedere quello che sarebbe apparso sullo schermo.
Non mi
concentro ora sulle tematiche del film, sulle problematiche e
questioni etico e sociali affrontate, ma brevemente espongo e
trasmetto le emozioni che ancora oggi sento ripensando alle immagini
ed alla musica, strettamente collegate e molto più che
accompagnamento l'una delle altre.
Mi
sembrava tutto un inno alla vita ed alla vitalità, pur nella gravità
e serietà delle situazioni rappresentate. Immaginate che effetto
poteva fare ad un ragazzo di 22 anni, fondamentalmente imbranato e
poco audace, quel susseguirsi di volti, voci, corpi, musiche di
Mingus, dialoghi “veri” e suoni reali.
Cassavetes
segue gli attori, in gran parte non professionisti, che il più delle
volte improvvisano senza neanche seguire molto le scarne indicazioni.
In alcuni momenti sembra pedinarli nel loro vagare per New York e nei
salotti e cafè che frequentano, inviandoli allo spettatore per
quanto sono, con una fotografia che alterna luci e buio, solarità e
ombre, nel loro vivere e poco altro.
“Ombre”
è un film di libertà, dove si incontrano arti ed espressioni,
musiche e filosofie, letteratura e vita. Una forma di
rappresentazione spontanea, in divenire, dove mi sembrava che il
processo fosse più importante del prodotto, con una fondamentale
instabilità che rendeva quest'ultimo non definitivo, ma in divenire appunto.
Non un
semplice lavoro sull'improvvisazione, concetto su cui il film è
costruito, bensì una fatica fisica, recitativa e di vita che esalta
i processi di interazione, di analisi dei conflitti.
L’improvvisazione perciò, ribaltando una visione brechtiana, porta
al cinema un ragionamento sul regista come capocomico, come ai tempi
di Shakespeare o di Pirandello, come nel caso di Cassavetes, che ci
inserisce molto anche della sua vita e della sua esperienza
personale, mettendo e mettendosi in scena per una storia in un
ambiente di artisti, amici, parenti in cui realmente si trovava.
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