Regia dinamica ed accurata, che racconta una storia con completezza visiva e narrativa che, in
qualche modo, giustifica e rende necessaria la lunga durata, altrimenti
deleteria. Il regista Jacques Audiard, e con lui i bravi interpreti, evita
stereotipi ed archetipi, in questo caso fuori luogo, anche non curandosi del
politicamente corretto. Un puzzle di generi, noir, gangster movie, film
carcerario, opera anche intimista e sociale, che si compone con lenta e
puntuale precisione sulla vicenda di un personaggio, l’efficace Tahar
Rahim/Malik El Djebena, talmente sradicato, senza vere radici, né di
clan né di razza (nonostante origini arabe), che cerca di barcamenarsi
nell’ambiente carcerario, subendone la violenza e permettendosi di imparare,
usare i propri antagonisti, voltargli le spalle e ogni volta fare un passo
avanti nella scalata verso il potere ed una posizione di privilegio.
La componente “di formazione” della vicenda,
ampiamente proposta ed utilizzata in decine di film a tema, viene ad assumere
nuova prospettiva, reinventando il genere, con adesione alle regole, fatte di
colori lividi e brutalità indicibili, ma allo stesso tempo superandole ed
arricchendo l’opera con incursioni oniriche che prima spiazzano ma poi
arricchiscono il romanzo di formazione stesso. Da segnalare la recitazione,
misurata e ben calibrata, del “padrino” Niels Arestrup/César Luciani.
La prova di Tahar Rahim è convicente: il suo volto è impenetrabile, la sua
maschera si incarica di interiorizzare il dolore di una formazione alla
vita ed al potere, fatta di morte, dolore e atrocità. La sua interpretazione si rispecchia in
quella di Niels Arestrup, nella parte del boss Cesar Luciani: i loro
duelli, fisici e verbali, assumono potenti sfumature edipiche, sino al ribaltamento finale, finio a quel momento solo accennato e quindi comunque sorprendente.
Unica nota negativa è la
presentazione di una vita carceraria
fin troppo frenetica ed indaffarata, quando ormai si sa bene che sono i tempi
morti, l’attesa, i silenzi ed un opprimente senso di horror vacui a darle connotazione. Questo elemento incrina
il realismo che comunque ci viene presentato, rendendolo “di maniera” e perciò
un po’ stucchevole. Di contro una vaga ambizione
modernista ci rende affascinante la durezza
e la cupezza di un’opera che
merita di essere rivista e ricordata.
Voto:8
Niels Arestrup e Tahar Rahim |
Niels Arestrup |
Tahar Rahim |
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