Don Fabrizio: Sono un esponente
della vecchia classe, fatalmente compromesso con il passato regime, e a questo
legato da vincoli di decenza, se non di affetto. La mia è un'infelice
generazione, a cavallo tra due mondi e a disagio in tutti e due. E per di più,
io sono completamente senza illusioni. Che se ne farebbe il Senato di me, di un
inesperto legislatore cui manca la capacità di ingannare se stesso, essenziale
requisito per chi voglia guidare gli altri? No Chevalley, in politica non
porgerei un dito, me lo morderebbero.
Chevalley: Principe, non
posso crederlo, ma proprio sul serio lei rifiuta di fare il possibile per
alleviare lo stato di povertà materiale e di cieca miseria morale in cui giace
il suo stesso popolo?
Don Fabrizio: Siamo vecchi,
Chevalley. Molto vecchi. Sono almeno venticinque secoli che portiamo sulle
spalle il peso di magnifiche ed eterogenee civiltà. Tutte venute da fuori,
nessuna fatta da noi, nessuna che sia germogliata qui. Da duemilacinquecento
anni non siamo altro che una colonia. Oh, non lo dico per lagnarmi, è colpa
nostra. Ma siamo molto stanchi, svuotati, spenti.
Chevalley: Ma Principe,
tutto questo adesso è finito. La Sicilia non è più una terra di conquista
ormai, ma libera parte di un libero Stato.
Don Fabrizio: L'intenzione è
buona, però arriva tardi. Il sonno, caro Chevalley, un lungo sonno, questo è ciò
che i siciliani vogliono. Ed essi odieranno sempre tutti quelli che vorranno
svegliarli, sia pure per portare loro i più meravigliosi doni. E, detto tra
noi, io dubito sinceramente che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel
suo bagaglio. Da noi ogni manifestazione, anche la più violenta, è
un'aspirazione all'oblio. La nostra sensualità è desiderio di oblio. Le
schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte. La nostra pigrizia,
la penetrante dolcezza dei nostri sorbetti, desiderio di immobilità voluttuosa,
cioè ancora di morte.
Chevalley: Principe...
Principe, non le sembra di esagerare? Io stesso ho conosciuto a Torino dei
siciliani che sembravano tutt'altro che dormiglioni.
Don Fabrizio: Non mi sono
spiegato bene, mi dispiace, Chevalley. Ho detto 'siciliani', dovevo dire
'Sicilia'. Quest'ambiente, la violenza del paesaggio, la crudeltà del clima, la
continua tensione in ogni cosa...
Chevalley: Ma il clima si vince,
il paesaggio si può modificare, il ricordo dei cattivi governi si cancella. Io
sono certo che i siciliani vorranno migliorare.
Don Fabrizio: Non nego che
alcuni siciliani, trasportati fuori dall'isola, possano riuscire a svegliarsi.
Ma devono partire molto giovani, a vent'anni è già tardi, la crosta si è
formata.
(Principe
Don Fabrizio di Salina/Burt Lancaster e Cavaliere Chevalley/Leslie French in “Il
Gattopardo”, di Luchino Visconti - 1963)
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