“Un
posto dove non cacciarmi nei guai. Totò, credi che esista un posto
del genere? Ci deve pur essere.” chiunque si sia bevuto la
storiella raccontataci dallo sceneggiatore sulla superiorità della
“casa” rispetto al “lontano da casa”, e creda di conseguenza
che la morale del Mago di Oz sia leziosa come un centrino con
su ricamato “casa dolce casa”, farebbe bene ad ascoltare il tono
struggente di desiderio nella voce di Judy Garland, mentre rivolge il
suo faccino al cielo. Quello che ella esprime qui, ciò che
rappresenta con la purezza dell'archetipo, è infatti il sogno umano
del partire, un sogno che ha una forza perlomeno equivalente alla sua
controparte, ossia il sogno delle radici. Al fondo del Mago di Oz
c'è una grande tensione tra questi due sogni; ma nel momento in cui
la musica ha inizio e quella voce limpida e potente si innalza nel
desiderio angoscioso espresso dal canto, qualcuno potrebbe avere
dubbi su quale dei due messaggi sia il più forte? Nel suo momento
emotivo più potente, questo è senza ombra di dubbio un film sulla
gioia di partire, di lasciare il grigiore e fare ingresso nel colore,
di ricrearsi una nuova vita nel “luogo dove non ci sono guai”.
Over the Rainbow è, o dovrebbe essere, l'inno di tutti gli
emigranti del mondo, di tutti quelli che vanno alla ricerca del luogo
in cui “i sogni che osi sognare realmente si avverano”. È
una celebrazione della Fuga, un grande peana dell'Io Sradicato, un
inno – anzi l'inno – all'Altrove.
(Salman
Rushdie, da “Il Mago di Oz”, trad. Giuseppe Strazzeri)
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