"Perché
è lì." È ciò che rispose un alpinista di nome George
Leighmallory quando gli chiesero perché volesse scalare l'Everest.
Il vecchio George era matto come un cavallo. Scalare l'Himalaya è la
cosa più pericolosa che un uomo posa fare. Questa cima non è
l'Everest ma non è comunque una passeggiata. Bisogna sempre avere
una buona ragione per scalare una montagna. (Wolverine)
Ho visto il
film “Everest” su consiglio, un po' interessato e magari
anche simpaticamente malizioso, di un mio collega. Per dirla in
breve, mi ha deluso, anche se ammetto di averlo visto per intero con
una buona dose di curiosità.
Non sono
nuovo alla visione di film avventurosi, mi piacciono quelli sulla
montagna, ma appunto per questo motivo ho molte riserve su “Everest”,
proprio perché da un certo punto in avanti la vera assente è per
l'appunto la Montagna. Ma come? Un film sull'Everest, sul
tetto del mondo, su ciò che simboleggia, forse più di molto altro,
l'avventura, la sfida, il coraggio, l'ardimento, a volte la superbia
dell'uomo, il confronto fra l'umano e la Natura, ha come assente
proprio quei 8.848 metri?
Secondo la
mia visione e l'opinione che me ne sono fatto è proprio così.
Proverò a scrivere perché. La prima parte sembra ben pensata e
sviluppata dal regista islandese Baltasar
Kormákur, con efficaci ed emozionanti
movimenti di macchina, tanto ariosi e pieni di colore e pathos da far
ben iniziare la visione e la narrazione di quella che si rivela una
tragedia. Subito dopo,
però, è tutto una lacrima, telefonate intercontinentali, scambi di
parole d'amore e di pietismo stucchevole. Le ottime potenzialità
date dall'ambientazione, suggestiva per qualunque spettatore, e dalla
base di partenza definita dal saggio Aria
sottile (Into Thin
Air), scritto da Jon Krakauer su cui l'intera
opera cinematografica si basa, vengono sprecate dalla deriva
hollywoodiana, per la quale l'incontro/scontro fra uomo e natura e la
fin troppo evidente suicida sfida con se stessi e col leviatano
roccioso sono ridotte a poche battute da accademia. Prendono così il
sopravvento i rapporti interpersonali, le componenti melodrammatiche
e le dinamiche moglie/marito affidate alle di solito apprezzabili, ma
qui poco più che belle figurine, Keira Knightley (piangente
in ogni scena in cui sia presente) e Robin
Wright. I personaggi femminili risultano fortemente penalizzati,
persino se hai nel cast Emily Watson ed Elizabeth Debicki. Discorso
analogo per i personaggi maschili. Risulta quasi una colpa
difficilmente perdonabile sprecare il lusso di poter dirigere nello
stesso film Josh Brolin, Jake “Donnie Darko” Gyllenhaal, Jason
Clarke ed altri buoni attori per poi non permettere allo spettatore
di “respirare” l'impresa, con la sua follia intrinseca, di
“vivere” il dolore fisico e psicologico dei vari protagonisti,
con le loro morti “telefonate” e la banalizzazione di un dramma
che impedisce, inoltre, di godere appieno dell’unicità dei
paesaggi.
La
colonna sonora soffoca e rende fin troppo piccoli i personaggi, rende
dell'Himalaya un'immagine vagamente oleografica, quasi da cartolina,
superficiale a tal punto da non comunicare il silenzio, il vento, la
tempesta. Elementi che cedono malinconicamente la scena agli
ammiccamenti, alle facili emozioni, al melò, ad una narrazione
didascalica che sottolinea ancora di più ed impietosamente il senso
di un'occasione mancata.
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