Tom Stall diventa un eroe dopo aver sventato una rapina nel suo diner uccidendo due criminali per legittima difesa. La sua vita viene stravolta dal circo mediatico che lo spinge sotto l’occhio di tutti, anche di due malavitosi capitanati dallo sfregiato Carl Fogarty. Questi è convinto che Tom sia in realtà Joey, un uomo dal passato criminale. Fogarty inizia a insidiare la moglie e i figli di Tom, che dovrà proteggere la sua famiglia dalla sua stessa, reale identità.
David Cronenberg è tuttora noto per le mutazioni
che i personaggi dei suoi film subiscono o vivono sui loro corpi. In
varie occasioni le storie da lui create e realizzate sul grande
schermo hanno visto protagonisti che cambiavano radicalmente nel
fisico, o che sullo stesso fisico basavano le proprie vicissitudini o
avventure. “La Mosca”,
“Crash” e
“Videodrome” sono
solo alcuni titoli esempio, ma l'intera carriera del regista canadese
è un'esplorazione delle mutazioni del corpo e della carne.
Cronenberg nella sua carriera ha saputo studiare le devianze e le
ossessioni di ogni genere, dirigendo film tanto belli quanto
(talvolta) ripugnanti,
per metterci di fronte alla mutazione, al cambiamento, alla
transizione dell'essere umano nel e sul proprio corpo, sulla carne.
In “A
History of Violence”, invece, la
metamorfosi, il cambiamento non è primariamente carnale, centrata
sul corpo, sebbene esso stesso e la carne ne siano coinvolti, questa
volta attraverso modalità più “classiche”. Il protagonista Tom
Stall, un Viggo Mortensen
in gran forma che anche grazie a questo film si liberò delle scorie
da eroe tolkieniano, vive un cambiamento che è di personalità,
attraverso gesti, parole e atteggiamenti. Da mite padre di famiglia a
killer freddo e lucido, allenato e abituato alla violenza. Per cui
una metamorfosi “intra” che è figlia di un'altra precedente che
lo spettatore non ha visto e che è portato ad immaginare, attraverso
quanto osserva sullo schermo. Un cambiamento che di fatto è un
ritorno ad un qualcosa che si era abbandonato, ma che si conclude con
un altro tentativo di ritorno a ciò che si era creato. Una velleità
che però è solo illusione, poiché tutto il suo mondo privato ne è
rimasto segnato e radicalmente mutato.
Quindi “A
History of Violence” può essere
definita la storia di un uomo e della sua metamorfosi (come
detto, tema caro all’autore) che avviene
tutta, senza trucchi o effetti speciali, davanti agli occhi dello
spettatore. Avviene di fronte ed all'interno
della sua famiglia, qui vista come fondamentale cardine della società
e della rispettabilità della stessa oltre che del singolo, con la
violenza che è innanzitutto quella di mettere a nudo un uomo di
fronte ai suoi affetti, ai suoi figli, a ciò che ha costruito.
C'è molto di mito fondativo americano
in questo approccio. Mito che allo stesso tempo viene omaggiato e
desacralizzato, con bugie, urla, inganni, sesso consumato sui gradini
e, appunto, violenza. All'inizio sembra violenza giustificata e
giustificabile, poiché esercitata nei confronti di chi insidia e
attacca l'armonia individuale e comunitaria, poi viene mostrata come
insita nell'uomo. Violenza che viene mostrata come trasmissibile ai
propri figli. Tom che poi è Joey l'ha probabilmente
imparata/ricevuta da un padre/fratello ed a sua volta la trasmette ai
componenti della sua famiglia. La narrazione è colma di tensione e
lo spettatore vive il dubbio su quanto sta osservando. Cronenberg
incentiva l’esibizione della metamorfosi a
vista del personaggio, quasi fosse qualcosa
che non ha una reale profondità, psicanalitica, edipica, remota, ma
qualcosa che avviene tutta nel presente, sull’epidermide e sul
volto mutevole (Viggo Mortensen di fatto passa
dall’essere Tom a Joey anche nella stessa scena)
del protagonista, così come su quelli della moglie e del figlio
maggiore.
Grazie anche
alla grande prova del già citato Mortensen, di Ed Harris, di William Hurt e di una sorprendente Maria Bello nel ruolo della moglie del
protagonista, questo film risulta di gran lunga uno dei migliori di
Cronenberg. Drammatico e monolitico nella sua classicità, a cavallo
fra western e noir, con caratteri e stilemi narrativo-rappresentativi
di entrambi i generi, “A History of Violence” ci racconta anche
di una mitologia nordamericana che viene trattata in modo audace e
raffinato, con gli archetipi del focolare domestico, della libertà
individuale, del viaggio, della difesa della proprietà privata e dei
propri valori. Magistralmente proposti attualizzandoli con un occhio
rivolto al classico. Ma qui non c'è eroismo,
solo la fredda, abbagliante drammatizzazione del sogno/incubo
nordamericano, con parecchia violenza, anche dove non si vede carne o
sangue.
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