martedì 9 giugno 2020

La banalità di una disobbedienza


La disobbedienza per essere civile dev'essere sincera, rispettosa, contenuta, mai provocante, deve basarsi su principi bene assimilati, non dev'essere capricciosa e soprattutto non deve nascondere rancore e odio.
(Mahatma Gandhi)


Nel corso di queste ultime settimane mi è capitato di leggere, sui social network ma anche su quotidiani ed altri contenitori di notizie on line, diversi interventi a tema “disobbedienza” oppure “obbedienza”.
In molti casi i vari post, articoli o commenti prendevano origine da frasi, aforismi o dichiarazioni di molti scrittori, poeti, leader politici o religiosi, figure carismatiche e personalità che a vario titolo hanno meritato, o quantomeno acquisito, notorietà.

Quindi vai di Thoreau, Brecht, Martin Luther King, Mandela, Gandhi, John Lennon, solo per ricordare i più scelti, fino a giungere all'Antigone di Sofocle.
L'elemento che mi turba è la consuetudine, ormai diffusa e infestante, di “utilizzare” frasi e pensieri di qualcuno in modo arbitrario, inoltre avulso da un contesto, drammaturgico-letterario o storico/sociale-politico che sia, per sostenere una propria posizione, una propria idea o anche solo un proprio capriccio. In questo modo si giunge a far un torto all'autore e alla personalità che si cita e il cui pensiero viene ricordato. Va da sé che una riga, un passo di un'opera letteraria o di un discorso tenuto da qualcuno, se estrapolato da un totale, da un ragionamento lungo e complesso, da una condizione specifica, può avvalorare una cosa così come il suo contrario. È necessario ricordare come ci sia ancora qualcuno che sostiene che l'omosessualità debba essere severamente punita dalle autorità civili e religiose basandosi su passi biblici?

Ebbene, le polemiche degli ultimi giorni sull'opportunità di continuare a mettere in atto pratiche atte a contenere la diffusione di un contagio, che si risolverebbero, a mio parere, in pochi comportamenti di buon senso e reciproco rispetto, non mi appassionano particolarmente. Pertanto tenderei ad evitare di discuterne, ma il fatto che qualcuno sia giunto ad utilizzare una frase di Hannah Arendt per giustificare la propria pubblica opposizione (la propria disobbedienza) ad indossare un pezzo di stoffa davanti alla propria bocca ed al proprio naso, allorquando si trovi a parlare ed agire in luoghi pubblici potenzialmente molto frequentati, mi ha messo di malumore e, onestamente, mi ha infastidito.
Ma come, direte voi, Mandela e Gandhi sì, ma Arendt no? Non è questione di simpatie, ma di senso della proporzione. Concetto invero offeso anche da parte di chi, implicitamente, si accomuna al primo presidente del Sudafrica post apartheid ed al padre dell'indipendenza dell'India per sostenere le proprie posizioni. Poiché questi uomini hanno sostenuto le proprie idee e si sono fatti voce della necessità di disobbedire a leggi e pratiche ingiuste, affrontando le conseguenze delle proprie azioni e delle proprie dichiarazioni (non sono sicuro che chi “prende in prestito” le loro parole sia altrettanto pronto a farlo). Perché, si può e si deve trasgredire alla legge che in coscienza si giudica ingiusta, ma occorre anche accettare la pena che essa prevede. 
Come sosteneva don Milani: “Chi paga di persona testimonia che vuole la legge migliore, cioè che ama la legge più degli altri.”

Dunque, tornando a Arendt, è stata utilizzata una sua frase pronunciata durante un’intervista, ovvero “Nessuno ha il diritto di obbedire”.
Presa così, criminalmente dal punto di vista dell'onestà e correttezza culturale e banalizzando il profondo e articolato pensiero di Arendt stessa, diviene uno slogan, un semplice inno e sintomo della pochezza intellettuale di quanti se ne appropriano.
Non mi è semplice esplicare le motivazioni che mi portano a soffrire per l'utilizzo improprio dei concetti di “obbedienza” e di conseguenza di “disobbedienza” in questi tempi balordi, da parte di sprovveduti in termini di conoscenza e rispetto del pensiero logico e speculativo. Così come illustrare i termini della frase in questione pone una difficoltà innegabile, anche perché è pressoché impossibile restituire la densità del ragionamento della politologa e filosofa tedesca fissando quell’unica frase.

Pertanto proviamo a individuare di che tipo di obbedienza si tratti quando diciamo che “nessuno ha il diritto” di metterla in pratica. Per il momento e limitatamente al caso in questione, credo che una parziale interpretazione trovi un punto di appoggio nella critica fatta da Arendt ai regimi totalitari e, in particolare, alla “cieca obbedienza” che drammaticamente essi impongono. In questo caso il diritto verrebbe meno quando le finalità complessive dei regimi totalitari calpestino il riconoscimento di un diritto “superiore”, coincidente con il valore assoluto della vita umana. Solo se viene leso tale valore, allora, cade anche il diritto di obbedire e risulta moralmente impellente, doveroso, passare senza indugi alla disobbedienza civile.

Tale interpretazione troverebbe appoggio, in qualche modo ispirazione, da una serie di passaggi dell'opera arendtiana “La Banalità del Male”. Qui appunto si trova, si troverebbe, una sua collocazione ermeneutica, nonché un senso alla e della citazione riportata. Per completezza la frase originale, resa più breve dall'operazione comunicativa di alcuni, suona così: “Secondo Kant, nessuno ha il diritto di obbedire”. Una frase, presa di peso da un contesto (un'intervista in questo caso specifico) e spostata in un altro con ben poche analogie, perde inevitabilmente riferimenti e collegamenti, rendendola alla stregua di quelle massime che da adolescenti si scriveva sui diari scolastici.
Innanzitutto perché viene chiamato in causa Kant? Kant era un filosofo, si è occupato anche di filosofia morale. La filosofia morale indaga questioni generali che suonano in modo simile alla citazione in questione. Per esempio: “Che cosa ho il diritto di fare?”. Allora proprio Kant diviene indispensabile a capire la frase “Nessuno ha il diritto di obbedire”.
Kant è indispensabile perché, durante il processo subito in Israele di cui Hanna Arendt ci parla nel già ricordato “La Banalità del Male”, era stato nominato da Adolf Eichmann, responsabile di aver organizzato il trasporto di milioni di ebrei (e non solo) nei campi di sterminio per la Soluzione Finale. Uno dei nazisti responsabili dello sterminio degli ebrei, un assassino disse, in breve: non è colpa mia se grazie al mio operato sono morti tanti ebrei, io ho solo obbedito agli ordini e l’obbedienza è una virtù morale, lo dice anche Kant.

A questo punto Hannah Arendt si pone la questione se Kant possa essere chiamato a giustificare la virtù dell’obbedienza, tanto da permettere che vengano arbitrariamente uccise moltissime persone, colpevoli solo di essere ritenute non meritevoli di vivere. Arendt, che ha studiato bene il pensiero di Kant, ci dice che non è possibile. Secondo il senso del pensiero di Kant, sostiene la filosofa, nessuno ha il diritto di obbedire. Ovvero, nessuno ha il diritto di giustificare il proprio operato criminale (e solo di questo si sta parlando, non di seguire alcune semplici indicazioni) dicendo che qualcuno, un leader, una figura di governo, un'autorità, gli ha dato il diritto di farlo.

Se hai obbedito a un ordine che ti imponeva di uccidere qualcuno, anche un individuo inerme per esempio, nessuno ti ha dato il diritto di farlo (si può ragionare se lo si è fatto per dovere, ma non è questo il momento ed il caso). Quell’omicidio lo compi solo tu, rendendotene pienamente responsabile. Quindi sarebbe il caso di lasciare in pace Kant e qualsiasi altra istanza “morale” esterna alla tua coscienza.
Risulta chiara la sproporzione di termini e di concetto fra quanto detto da Arendt ed il contesto a cui si riferiva ed il caso di rispettare alcune banali indicazioni di tutela comune? La politologa e filosofa si rifa a Kant, attualizza e dona nuova dignità al pensiero di Kant scempiato da Adolf Eichmann, per farci notare che il diritto nasce invece sempre da un atto autonomo, non dall’obbedienza a un ordine esterno, e perciò talvolta è persino giusto e “morale” ribellarsi alla legge, ovviamente non se questa legge mi impone di rispettare l'altro, contribuire al benessere e sicurezza comune o di pagare le tasse, ma di uccidere un bambino o di contribuire allo sterminio di un popolo. Certo, a meno che secondo qualcuno indossare una mascherina quando si va a fare la spesa o all'ufficio postale e chiedere che anche altri usino la stessa premura sia un comportamento da nazista.

La prima lezione che potremmo trarre dal libro [Il barone rampante] è che la disobbedienza acquista un senso solo quando diventa una disciplina morale più rigorosa e ardua di quella a cui si ribella.
(Italo Calvino)


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