La
disobbedienza per essere civile dev'essere sincera, rispettosa,
contenuta, mai provocante, deve basarsi su principi bene assimilati,
non dev'essere capricciosa e soprattutto non deve nascondere rancore
e odio.
(Mahatma
Gandhi)
Nel corso di
queste ultime settimane mi è capitato di leggere, sui social network
ma anche su quotidiani ed altri contenitori di notizie on line,
diversi interventi a tema “disobbedienza” oppure
“obbedienza”.
In molti
casi i vari post, articoli o commenti prendevano origine da frasi,
aforismi o dichiarazioni di molti scrittori, poeti, leader politici o
religiosi, figure carismatiche e personalità che a vario titolo
hanno meritato, o quantomeno acquisito, notorietà.
Quindi
vai di Thoreau, Brecht, Martin Luther King, Mandela, Gandhi, John
Lennon, solo per ricordare i più scelti, fino a giungere
all'Antigone di Sofocle.
L'elemento
che mi turba è la consuetudine, ormai diffusa e infestante, di
“utilizzare” frasi e pensieri di qualcuno in modo arbitrario,
inoltre avulso da un contesto, drammaturgico-letterario o
storico/sociale-politico che sia, per sostenere una propria
posizione, una propria idea o anche solo un proprio capriccio. In
questo modo si giunge a far un torto all'autore e alla personalità
che si cita e il cui pensiero viene ricordato. Va da sé che una
riga, un passo di un'opera letteraria o di un discorso tenuto da
qualcuno, se estrapolato da un totale, da un ragionamento lungo e
complesso, da una condizione specifica, può avvalorare una cosa così
come il suo contrario. È necessario ricordare come ci sia ancora
qualcuno che sostiene che l'omosessualità debba essere severamente
punita dalle autorità civili e religiose basandosi su passi biblici?
Ebbene, le
polemiche degli ultimi giorni sull'opportunità di continuare a
mettere in atto pratiche atte a contenere la diffusione di un
contagio, che si risolverebbero, a mio parere, in pochi comportamenti
di buon senso e reciproco rispetto, non mi appassionano
particolarmente. Pertanto tenderei ad evitare di discuterne, ma il
fatto che qualcuno sia giunto ad utilizzare una frase di Hannah
Arendt per giustificare la propria pubblica opposizione (la
propria disobbedienza) ad indossare un pezzo di stoffa davanti
alla propria bocca ed al proprio naso, allorquando si trovi a parlare
ed agire in luoghi pubblici potenzialmente molto frequentati, mi ha
messo di malumore e, onestamente, mi ha infastidito.
Ma come,
direte voi, Mandela e Gandhi sì, ma Arendt no? Non è questione di
simpatie, ma di senso della proporzione. Concetto invero offeso anche
da parte di chi, implicitamente, si accomuna al primo presidente del
Sudafrica post apartheid ed al padre dell'indipendenza dell'India per
sostenere le proprie posizioni. Poiché questi uomini hanno sostenuto
le proprie idee e si sono fatti voce della necessità di disobbedire
a leggi e pratiche ingiuste, affrontando le conseguenze delle proprie
azioni e delle proprie dichiarazioni (non sono sicuro che chi
“prende in prestito” le loro parole sia altrettanto pronto a
farlo). Perché, si può e si deve trasgredire alla legge che in
coscienza si giudica ingiusta, ma occorre anche accettare la pena che
essa prevede.
Come sosteneva don Milani: “Chi paga di
persona testimonia che vuole la legge migliore, cioè che ama la
legge più degli altri.”
Dunque,
tornando a Arendt, è stata utilizzata una sua frase pronunciata
durante un’intervista, ovvero “Nessuno ha il diritto di
obbedire”.
Presa
così, criminalmente dal punto di vista dell'onestà e correttezza
culturale e banalizzando il profondo e articolato pensiero di Arendt
stessa, diviene uno slogan, un semplice inno e sintomo della pochezza
intellettuale di quanti se ne appropriano.
Non mi è
semplice esplicare le motivazioni che mi portano a soffrire per
l'utilizzo improprio dei concetti di “obbedienza” e di
conseguenza di “disobbedienza” in questi tempi balordi, da parte
di sprovveduti in termini di conoscenza e rispetto del pensiero
logico e speculativo. Così come illustrare i termini della frase in
questione pone una difficoltà innegabile, anche perché è pressoché
impossibile restituire la densità del ragionamento della politologa
e filosofa tedesca fissando quell’unica frase.
Pertanto
proviamo a individuare di che tipo di obbedienza si tratti quando
diciamo che “nessuno ha il diritto” di metterla in
pratica. Per il momento e limitatamente al caso in questione, credo
che una parziale interpretazione trovi un punto di appoggio nella
critica fatta da Arendt ai regimi totalitari e, in
particolare, alla “cieca obbedienza” che drammaticamente essi
impongono. In questo caso il diritto verrebbe meno quando le finalità
complessive dei regimi totalitari calpestino il riconoscimento di un
diritto “superiore”, coincidente con il valore assoluto della
vita umana. Solo se viene leso tale valore, allora, cade anche il
diritto di obbedire e risulta moralmente impellente, doveroso,
passare senza indugi alla disobbedienza civile.
Tale
interpretazione troverebbe appoggio, in qualche modo ispirazione, da
una serie di passaggi dell'opera arendtiana “La Banalità
del Male”. Qui appunto si
trova, si troverebbe, una sua collocazione ermeneutica, nonché un
senso alla e della citazione riportata. Per completezza la frase
originale, resa più breve dall'operazione comunicativa di alcuni,
suona così: “Secondo Kant, nessuno ha il diritto di
obbedire”. Una frase, presa
di peso da un contesto (un'intervista
in questo caso specifico)
e spostata in un altro con ben poche analogie, perde inevitabilmente
riferimenti e collegamenti, rendendola alla stregua di quelle massime
che da adolescenti si scriveva sui diari scolastici.
Innanzitutto
perché viene chiamato in causa Kant? Kant era un filosofo, si è
occupato anche di filosofia morale. La filosofia morale indaga
questioni generali che suonano in modo simile alla citazione in
questione. Per esempio: “Che cosa ho il diritto di fare?”. Allora
proprio Kant diviene indispensabile a capire la frase “Nessuno ha
il diritto di obbedire”.
Kant è
indispensabile perché, durante il processo subito in Israele di cui
Hanna Arendt ci parla nel già ricordato “La Banalità del Male”,
era stato nominato da Adolf Eichmann,
responsabile di aver organizzato il trasporto di milioni di ebrei (e
non solo) nei campi di sterminio per la
Soluzione Finale.
Uno dei nazisti responsabili dello sterminio degli
ebrei, un assassino disse, in breve: non è
colpa mia se grazie al mio operato sono morti tanti ebrei, io ho solo
obbedito agli ordini e l’obbedienza è una virtù morale, lo dice
anche Kant.
A questo
punto Hannah Arendt si pone la questione se Kant possa essere
chiamato a giustificare la virtù dell’obbedienza, tanto da
permettere che vengano arbitrariamente uccise moltissime persone,
colpevoli solo di essere ritenute non meritevoli di vivere. Arendt,
che ha studiato bene il pensiero di Kant, ci dice che non è
possibile. Secondo il senso del pensiero di Kant, sostiene la
filosofa, nessuno ha il diritto di obbedire. Ovvero,
nessuno ha il diritto di giustificare il proprio operato criminale (e
solo di questo si sta parlando, non di seguire alcune semplici
indicazioni) dicendo che
qualcuno, un leader, una figura di governo, un'autorità, gli ha dato
il diritto di farlo.
Se hai
obbedito a un ordine che ti imponeva di uccidere qualcuno, anche un
individuo inerme per esempio, nessuno ti ha dato il diritto di farlo
(si può ragionare se lo si è fatto per dovere, ma non è questo
il momento ed il caso). Quell’omicidio lo compi solo tu,
rendendotene pienamente responsabile. Quindi sarebbe il caso di
lasciare in pace Kant e qualsiasi altra istanza “morale” esterna
alla tua coscienza.
Risulta
chiara la sproporzione di termini e di concetto fra quanto detto da
Arendt ed il contesto a cui si riferiva ed il caso di rispettare
alcune banali indicazioni di tutela comune? La politologa e filosofa
si rifa a Kant, attualizza e dona nuova dignità al pensiero di Kant
scempiato da Adolf Eichmann, per farci notare che il diritto nasce
invece sempre da un atto autonomo, non dall’obbedienza a un ordine
esterno, e perciò talvolta è persino giusto e “morale”
ribellarsi alla legge, ovviamente non se questa legge mi impone
di rispettare l'altro, contribuire al benessere e sicurezza comune o
di pagare le tasse, ma di uccidere un bambino o di contribuire allo
sterminio di un popolo. Certo, a meno che secondo qualcuno
indossare una mascherina quando si va a fare la spesa o all'ufficio
postale e chiedere che anche altri usino la stessa premura sia un
comportamento da nazista.
La prima
lezione che potremmo trarre dal libro [Il barone rampante] è che la
disobbedienza acquista un senso solo quando diventa una disciplina
morale più rigorosa e ardua di quella a cui si ribella.
(Italo
Calvino)
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