mercoledì 31 luglio 2019

Ghost in the Shell (2017)


Mi sono avvicinato a “Ghost in the Shell”, il film del 2017 di Rupert Sanders, con cautela e un po' di titubanza, come si fa, o comunque sono solito fare, nel momento in cui scelgo di vedere ciò che si presenta come un remake, o quasi, di qualcosa che ho molto amato. In effetti il film è molto vicino all'omonimo anime datato 1995 per la regia di Mamoru Oshii, a sua volta basato sul manga di Masamune Shirow.

Ne avevo letto parecchie critiche negative, a volte spietate, basate su più aspetti e considerazioni, per cui ho dovuto impegnarmi maggiormente per poterlo guardare con la migliore predisposizione possibile. Credo che il film non sia affatto male, a patto di evitare almeno in parte il diretto confronto con l'anime anni 90. In caso contrario la lotta è decisamente impari, sebbene permanga qualche elemento positivo.

Dunque così ho cercato fare e la mia considerazione è che “Ghost in the Shell” di Sanders meriti attenzione ed una possibilità anche da parte dei fan dell'animazione giapponese.
Se la prima parte si risolve in poco più di una emulazione di quanto visto vent'anni prima, con scene talmente identiche da poter sovrapporre i fotogrammi dell'una e dell'altra opera, nel prosieguo della visione il film acquista una sua dimensione e prende una sua strada. Spinge sull'action movie e vira la riflessione e le vicende della protagonista sul versante della ricerca della propria identità, del proprio passato. Ovvero inserisce elementi tutto sommato conosciuti, quasi classici, su un impianto fantascientifico che guarda al cyberpunk, dove elementi thriller e polizieschi rendono il tutto maggiormente alla portata del grande pubblico. Il cyberpunk oggi è poco conosciuto e paga una carente diffusione, tra i più giovani in particolare. Pertanto averlo riproposto e portato in scena in grande stile e con vasta diffusione ritengo sia un'ottima cosa, pur con le semplificazioni stilistiche e drammaturgiche del caso.

I puristi ne rimangono inorriditi, ma un fetta non trascurabile del pubblico può farsi coinvolgere e magari (ri)avvicinarsi al genere. La fantascienza ed il cyberpunk hanno ancora molto da dire. Inoltre le critiche alla scelta come protagonista di Scarlett Johansson, con annesse accuse di whitewashing, dal momento che nel manga originale la protagonista, Motoko Kusanagi, è di etnia asiatica, mi sembrano ingenerose. Innanzitutto per gran parte del film non viene usato il nome Motoko, e quando si comincia a farlo è per inserire una deviazione narrativa e drammaturgica precisa, con molte e fondate giustificazioni e motivazioni. Inoltre l'attrice statunitense si è molto ben destreggiata nel ruolo, con buone prove nelle scene d'azione e tipicamente da science fiction thriller così come in quelle maggiormente dialogate e narrative (in fondo è pur sempre un membro degli Avengers, no?). Al limite la sua statura, non propriamente notevole, ha un po' penalizzato la resa scenica nei momenti in cui la si vede fianco a fianco con i protagonisti maschili. Infine anche nell'anime, così come nel manga, le fattezze del maggiore da lei interpretato non sono così spiccatamente asiatiche, come poi accade in molti altri esempi di opere cinematografiche o fumettistiche (anime e manga spesso hanno personaggi con viso e fattezze occidentali, secondo la tradizione produttiva).


In buona sostanza, se si guarda al film con il cuore e gli occhi all'anime, quest'ultimo vince nettamente e con facilità soprattutto per la profondità di riflessione e l'impianto narrativo-scenico, viceversa se si offre un'opportunità a Sanders, alla Johansson, a Takeshi Kitano ed agli altri attori coinvolti, non si rimane del tutto delusi e viene la voglia di chiedere altre opere di fantascienza con elementi filosofici, che possano raggiungere il pubblico ed anche solo intrattenerlo con discreta qualità.

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