Fra poco è mezzanotte.
Sopra la piccola piazza di Capri,
nel cielo, navigano nuvole basse, appaiono i contorni luminosi delle stelle;
l’azzurro Sirio fiammeggia, poi si spegne. Dalla porta della chiesa il canto
grave e pieno dell’organo si spande, e la corsa delle nuvole, il tremolío delle
stelle, il movimento delle ombre sui muri degli edifici e il lastricato della
piazza sembrano comporre una specie di armonia.
Secondo questo ritmo maestoso la
piazza intera, che assomiglia stranamente allo scenario di un melodramma, muta
aspetto, ora pare stretta e cupa, ora vasta e d’una chiarezza trasparente.
Sulla piazza i bambini giuocano
lanciando petardi rumorosi; i serpenti di fuoco saltellano con frastuono sulle
pietre, sputando scintille rosse; qualche volta una mano ardita getta in aria,
altissimo, un razzo acceso, che fischia e volteggia, simile a un pipistrello
spaventato; piccole figure agili scappano da ogni lato con grida e risa;
un’esplosione sonora si fa sentire e per un secondo illumina i bambini
rifugiati negli angoli.
Le detonazioni echeggiano quasi
senza interruzione, coprendo gli scoppi di risa, le esclamazioni di spavento e
il ticchettío secco degli zoccoli sulla lava sonora; ombre fremono prendendo lo
slancio: riflessi rossastri illuminano le nubi, e le mura antiche delle case
sembrano sorridere: ricordano l’infanzia dei vecchi e hanno assistito piú di
cento volte a questo divertimento rumoroso e un pochino pericoloso, al quale i
ragazzi si abbandonano la vigilia di Natale.
Fra due esplosioni, si sente di
nuovo il canto grave e sonoro dell’organo; il mare risponde in basso con i
colpi sordi che batte contro le rocce della sponda e con il rumoreggiare
continuo delle onde, l’organo continua a cantare e i bambini a ridere; ma
improvvisamente la campana dell’orologio sulla torre batte dodici colpi.
La messa è finita; in fiumana
variopinta la folla esce di chiesa e si spande sui larghi gradini della
scalinata, e i rossi serpentelli si slanciano davanti ad essa torcendosi. Le
donne lanciano grida di spavento, i ragazzi ridono e sono felici; è la loro
festa e nessuno oserebbe proibire loro di giocare.
Gli zampognari, i montanari,
pastori d’Abruzzo, coperti di corti mantelli azzurri e con grandi cappelli,
arrivano in fretta. Le gambe loro sono coperte di calze di lana bianca, sulle
quali si incrociano strisce nere. Due di loro hanno cornamuse sotto i mantelli
e altri quattro tengono fra le mani corni di legno d’un suono acutissimo.
Questa gente viene una volta
all’anno a passare un mese nell’isola. Ogni giorno celebrano Gesú e la Madonna
con le loro strane e belle musiche.
È curioso vederli alle prime
luci del giorno; col cappello in terra stanno ritti davanti alla statua della
Vergine, guardando il Suo bel volto con aria ispirata e suonano in Suo onore
una melodia commovente oltre ogni dire [...].
Ora i pastori s’incamminano verso
il Presepe del Bambino Gesú, che si trova in casa di Paolino, il vecchio
carpentiere, e che bisogna trasportare nella Chiesa di Santa Teresa. I ragazzi corrono dietro loro; la
stretta via inghiotte le figure nere e per qualche momento la piazza è quasi
deserta; non vi resta se non un gruppo folto, che attende la processione sulla
scalinata, vicino alla chiesa, mentre le ombre delle nuvole scivolano
silenziosamente sui muri degli edifici e sulla testa della gente e sembrano
volerla accarezzare.
Il mare sospira. Nelle tenebre,
al di sopra dell’istmo, appare un formicolío di stelle, come un immenso vaso su
un esile piedistallo. Sirio risplende di luce abbagliante; le nuvole sono
discese dal monte Solario.
I canti dei pastori si spandono
sotto gli archi delle strade in onde sonore e gaie; col loro naso adunco e col
loro mantello, i musicanti somigliano a grandi uccelli; si sono tolti il
cappello e camminano suonando, circondati da una folla di bambini che reggono
lanterne appese a lunghi bastoni; decine di fiamme dondolano in aria e
rischiarano la piccola figura grassoccia del vecchio Paolino, la sua barba
d’argento, la mangiatoia che porta e nella mangiatoia piena di fiori il corpo
roseo del Bambino Gesú, che con un sorriso leva le manine benedicenti.
Il vecchio contempla questa
statuina di terracotta con tanta tenerezza, come se per lui fosse vivente e
promettesse di instaurare allo spuntar del sole “la pace sulla terra e fra gli
uomini di buona volontà”.
Da ogni parte si scoprono teste
bianche, s’inclinano verso la mangiatoia visi severi; da per tutto risplendono
occhi dolci. Si accendono fuochi di bengala; tutto ciò che era cupo è scomparso
dalla piazza come se fosse d’improvviso sopraggiunta l’aurora. I bambini
cantano, gridano e ridono: buoni sorrisi rischiarano il volto degli adulti:
sembra che anch’essi avrebbero piacere di saltare e far baccano, se non
temessero di perdere agli occhi dei bambini il loro prestigio di persone serie.
Simili a farfalle d’oro le fiamme
gialle delle candele palpitano al di sopra delle vesti; piú in alto, nel cielo
azzurro cupo, le stelle splendono di mille colori.
Maksim Gor'kij ("Racconti d'Italia" - "Natale a Capri")
(trad. di
M. Parodi)
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