A molti di quelli che hanno
frequentato l’università fuori sede è
capitato di condividere spazi, ambienti e ore con personaggi tanto bizzarri e vari da meritarsi un posto in un bestiario medievale. Ciò generalmente
accade all’interno di appartamenti di
proprietà di individui con dubbie doti etico-morali, ma di comprovata abilità
nel mettere insieme studenti dai più
disparati e tra loro distanti luoghi di provenienza, con caratteristiche e retroterra
culturali a dir poco eterogenei. Inoltre il dubbio che mi permane da allora è se ciò fosse causato dal mero
obiettivo di riempire il più possibile, e nel minor tempo ipotizzabile, vecchie cantine, garage riadattati, buchi
umidi e fatiscenti, porzioni di bilocali e bui sottoscala che venivano
battezzati appartamenti, oppure da sincera passione per il metodo sperimentale
(tipo: dati i soggetti A, B, C e D, creiamo le condizioni per una loro
reciproca interazione in questo spazio circoscritto e vediamo cosa succede).
Ciò varrebbe, a grandi linee, anche per Collegi,
Studentati o altre forme di residenzialità direttamente gestite dagli Enti per il Diritto allo Studio
Universitario, ma è un altro campo e soprattutto non voglio crearmi ulteriori
potenti nemici.
Al sottoscritto capitò di essere
compagno di camera di un “ragazzo”, studente
professionista di lungo (fuori) corso, sulle cui peculiarità al momento non
mi dilungo, ma che saranno evidenti a chi avrà la bontà di continuare a
leggere.
Ero al primo anno, per cui permanevano in me quelli che, in caso di vita
universitaria, possiamo definire desueti ed inopportuni retaggi ancestrali di
routine quotidiane, impegno e responsabilità, oltre ad una certa quota di educazione e “buona
creanza” (instillatami a massicce e continue dosi di sberle da mia nonna).
Una delle prime mattine della mia
nuova vita di studente universitario
mi alzai dal letto, alle 8, e mi avviai verso la piccola cucina (dopo aver
espletato una delle funzioni base della fisiologia umana) e mi misi a leggere
le notizie sul Televideo. Dopo una
manciata di minuti mi raggiunse il mio compagno
di camera, che avevo incrociato per pochi istanti la sera prima.
(qualche secondo in cui il suo
sguardo passa, con metodo e studiata lentezza, dalla mia figura alla Tv e viceversa)…
Lui: m'hai a scusari, ma nai
nenti che fari?
Io: scusa?
Lui: non hai niente da fare?
Io: perchè?
Lui: pirchì ti alzasti!
Io: …
Lui: ti sei alzato ed ora leggi a ‘sti cose.
Io: le notizie?
Lui: miih, ma sempre domande fai? non hai niente da fare, guardi cosa
sta scritto alla Tv.
In quel momento lasciai perdere
qualsiasi tentativo di chiarificazione reciproca e cambiai discorso. Nei giorni
successivi la domanda “ma nai nenti che fari/non hai niente
da fare?”, con diverse sfumature, mi venne rivolta a più riprese; mentre
leggevo un giornale, scrivevo una lettera, preparavo il caffè (ce n’è magari
ppi mmia? veniva aggiunto), provavo a studiare, uscivo per andare a lezione o a
fare la spesa. Insomma, qualsiasi cosa facessi, ai suoi occhi ero un perditempo, uno scansafatiche, uno che
non aveva niente da fare.
A questo punto è legittimo
pensare che lui fosse indaffaratissimo
e sempre impegnato, a tal punto da
considerare me uno che se la può prendere comoda e fare cose che, per individui
come lui, sarebbero un lusso ed inutile spreco di tempo prezioso, tipo lavarsi
i denti o farsi una doccia, andare al cinema o all’edicola. Poi magari capitava
di entrare in un bar per un
cappuccino e me lo ritrovavo lì, “Mih, ma sempre qua sei? Ma com’è che non hai
mai niente che fare tu, ah?”, oppure andare in cucina per guardare la Tv ed era lì con un amico, “Talìa, arrivuò o
accucchia bruodu” (guarda, è arrivato
chi non fa niente).
La cosa aveva cominciato ad assumere toni grotteschi, in qualche
caso mi sentivo veramente fuori posto quando non propriamente “sbagliato”. Specialmente
quella volta in cui, avendo accettato un suo invito ad uscire insieme per una serata,
mi sono ritrovato a fronteggiare non solo i suoi “rimproveri”, ma anche quelli
di un suo degno collega, venendo così ad essere totalmente esposto ad un vero e
proprio fuoco di fila. Descrivo in sintesi cosa accadde: dopo aver pagato una
cifra non esattamente modesta accediamo ad un locale, non propriamente
una discoteca, ma un luogo piacevole in cui bere una birra o altra bevanda,
scambiare qualche parola ed eventualmente ballare. Io, dopo poco,
commisi l’imperdonabile errore di dedicarmi a quest’ultima attività. “Talìa,
talìa, guarda che fa” comincia lui additandomi pubblicamente, “Me pare 'o nonno
mijo" incalza l’altro dandogli di gomito. Fatto sta che, nel giro di pochi
minuti, sembravo divenuto la principale attrazione
per un nutrito gruppo di soggetti maschili, in gran parte iscritti, da
immemorabile tempo, alle più diverse facoltà
presenti nell’Ateneo che aveva avuto la compiacenza di accogliermi tra i suoi studenti.
Ricordo che provai a chiedere spiegazioni al riguardo, per sentirmi
rispondere (interpreto e rielaboro le frasi pronunciate) che era da ritenersi
socialmente sconveniente, non consono, andare in un locale e ballare, bere una
birra seduti ad un tavolo e divertirsi. Si va in un locale pubblico, alla sera,
essenzialmente per assolvere due funzioni che nulla hanno a che vedere con il
divertirsi: vestirsi «bene», (cioè
con addosso abiti che riportino ben in evidenza firma e marchio giusto) e «farsi vedere» e «vedere chi c’è». Se
balli o anche solo provi a svagarti, a stare bene, a vivere, sei un tipo strano,
non “à la page”, di fatto un truzzo, un coatto, un tamarro, uno sfigato e così
via spaziando per le varie regioni italiane.
Attribuii tale personale inadeguatezza al riguardo al mio retroterra provinciale,
che mi impediva di comprendere come funzionavano le cose al di fuori dei
ristretti ambiti geografico-culturali in cui fino a quel momento mi ero mosso.
Ma, come ebbi modo di scoprire qualche tempo dopo, la questione era un’altra:
per il mio compagno di camera,
evidentemente dotato di grande ego, un’inattaccabile sicurezza di sé oltre che
di una immensa “faccia come il c..o”, era solo lui ad impegnarsi in qualcosa di
veramente valido e per cui valesse la pena investire le proprie energie. Gli altri, da me al Magnifico
Rettore, passando per impiegati comunali, autisti dell’autobus, commesse del
supermercato e negozianti vari, non avevano mai niente da fare e non capivano
niente.
Ciò valeva sempre, anche per attività per così
dire socialmente previste e diffuse ed universalmente accettate e consentite; ad
esempio dopo aver finito di lavorare od essere uscito da lezione fai una
passeggiata? sei un babbazzu (sciocco) oppure non hai niente che fare. Ti piace
collezionare monete o francobolli? Sei un folle malato oppure non hai niente
che fare. Leggi libri? Sei jarrùsu/puppo (effeminato o peggio) oppure non hai
niente che fare. Scrivi su un blog? Sei uno scimunito e di sicuro non hai
niente che fare.
Solo chi non ha niente da fare può pensare di andare
in palestra, in piscina, ascoltare musica,
cucinare un arrosto, acquistare un libro, noleggiare un film che non sia dei Vanzina o andare a
teatro. Le sue giornate erano troppo
piene perché si potesse dedicare a qualcosa del genere, ma considerando bene
tutto l’insieme, soprattutto osservandolo con attenzione, avevo capito che in
realtà lui non faceva mai una minchia!
(non credo sia necessario tradurre). Escludendo il rompere i cabbasisi
(capperi) al sottoscritto e poco altro.
Quando mi decisi a metterlo di fronte a questa
realtà e vendicarmi di mesi di ingiurie,
volendo inoltre godermi il momento in cui avrei effettuato un colpo di mano ribaltando così la
situazione, mi sentii rispondere: A megghia parola è chidda ca nun si dici
(letteralmente: La migliore parola è quella che non viene pronunciata; ossia:
faresti meglio a stare zitto e farti gli affari tuoi).
A quel
punto mi era chiaro che l’essenza del suo essere era riassumibile nel
porsi come individuo impegnato, talmente oberato di responsabilità ed
incombenze, che nessun soggetto “normale” avrebbe mai potuto comprenderne la
condizione. Come mi suggerì un suo valido sodale nel corso di quel primo
indimenticabile anno accademico “io tenevo 'a capa fresca” (non avevo nient’altro a cui pensare), per cui
potevo dedicarmi a frivolezze varie (tra cui sostenere esami) e avrei dovuto
capire come funzionavano le cose, motivo per il quale venivo stimolato con un “Ma
che staje facenno? 'O ppane?”(cosa aspetti/perché perdi tempo?). Cosa mai avrei potuto ribattere?
Comunque all’inizio dell’estate salutai colui con cui avevo condiviso la stanza
e mi trasferii in un altro appartamento con altri studenti, certo che lui pensasse
che i muratori bergamaschi sia gente
che se la mena tutto il giorno e che a Wall
Street non si combini nulla tutto il santo giorno.
Recentemente
mi è capitato di “incontrarlo” in una chat. Ho scoperto che ha vinto un concorso pubblico nella città in cui ci
siamo conosciuti ed in cui avremmo dovuto laurearci, che alle 10.30 di un
giorno feriale, al lavoro, aveva appena fatto colazione e preso un caffè,
che alle 12.00 sarebbe uscito per andare a prendere i “carusi a scola” e che
aveva poco tempo per chattare perché lui non è come me, ovvero «Mih, ma sempre qua sei? Ma com’è che non
hai mai niente che fare tu, ah?».
Apecar/Lapa decorata come un carretto siciliano |
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