sabato 29 dicembre 2012

L'importanza di essere impegnati a non fare nulla



A molti di quelli che hanno frequentato l’università fuori sede è capitato di condividere spazi, ambienti e ore con personaggi tanto bizzarri e vari da meritarsi un posto in un bestiario medievale. Ciò generalmente accade all’interno di appartamenti di proprietà di individui con dubbie doti etico-morali, ma di comprovata abilità nel mettere insieme studenti dai più disparati e tra loro distanti luoghi di provenienza, con caratteristiche e retroterra culturali a dir poco eterogenei. Inoltre il dubbio che mi permane da allora è se ciò fosse causato dal mero obiettivo di riempire il più possibile, e nel minor tempo ipotizzabile, vecchie cantine, garage riadattati, buchi umidi e fatiscenti, porzioni di bilocali e bui sottoscala che venivano battezzati appartamenti, oppure da sincera passione per il metodo sperimentale (tipo: dati i soggetti A, B, C e D, creiamo le condizioni per una loro reciproca interazione in questo spazio circoscritto e vediamo cosa succede). Ciò varrebbe, a grandi linee, anche per Collegi, Studentati o altre forme di residenzialità direttamente gestite dagli Enti per il Diritto allo Studio Universitario, ma è un altro campo e soprattutto non voglio crearmi ulteriori potenti nemici.

Al sottoscritto capitò di essere compagno di camera di un “ragazzo”, studente professionista di lungo (fuori) corso, sulle cui peculiarità al momento non mi dilungo, ma che saranno evidenti a chi avrà la bontà di continuare a leggere.

Ero al primo anno, per cui permanevano in me quelli che, in caso di vita universitaria, possiamo definire desueti ed inopportuni retaggi ancestrali di routine quotidiane, impegno e responsabilità, oltre ad una certa quota di educazione e  “buona creanza” (instillatami a massicce e continue dosi di sberle da mia nonna).

Una delle prime mattine della mia nuova vita di studente universitario mi alzai dal letto, alle 8, e mi avviai verso la piccola cucina (dopo aver espletato una delle funzioni base della fisiologia umana) e mi misi a leggere le notizie sul Televideo. Dopo una manciata di minuti mi raggiunse il mio compagno di camera, che avevo incrociato per pochi istanti la sera prima.

(qualche secondo in cui il suo sguardo passa, con metodo e studiata lentezza, dalla mia figura alla Tv e viceversa)…

Lui: m'hai a scusari, ma nai nenti che fari?
Io: scusa?
Lui: non hai niente da fare?
Io: perchè?
Lui: pirchì ti alzasti!
Io:
Lui: ti sei alzato ed ora leggi a ‘sti cose.
Io: le notizie?
Lui: miih, ma sempre domande fai? non hai niente da fare, guardi cosa sta scritto alla Tv.

In quel momento lasciai perdere qualsiasi tentativo di chiarificazione reciproca e cambiai discorso. Nei giorni successivi la domanda ma nai nenti che fari/non hai niente da fare?”, con diverse sfumature, mi venne rivolta a più riprese; mentre leggevo un giornale, scrivevo una lettera, preparavo il caffè (ce n’è magari ppi mmia? veniva aggiunto), provavo a studiare, uscivo per andare a lezione o a fare la spesa. Insomma, qualsiasi cosa facessi, ai suoi occhi ero un perditempo, uno scansafatiche, uno che non aveva niente da fare.

A questo punto è legittimo pensare che lui fosse indaffaratissimo e sempre impegnato, a tal punto da considerare me uno che se la può prendere comoda e fare cose che, per individui come lui, sarebbero un lusso ed inutile spreco di tempo prezioso, tipo lavarsi i denti o farsi una doccia, andare al cinema o all’edicola. Poi magari capitava di entrare in un bar per un cappuccino e me lo ritrovavo lì, “Mih, ma sempre qua sei? Ma com’è che non hai mai niente che fare tu, ah?”, oppure andare in cucina per guardare la Tv ed era lì con un amico, “Talìa, arrivuò o accucchia bruodu” (guarda, è arrivato chi non fa niente).

La cosa aveva cominciato ad assumere toni grotteschi, in qualche caso mi sentivo veramente fuori posto quando non propriamente “sbagliato”. Specialmente quella volta in cui, avendo accettato un suo invito ad uscire insieme per una serata, mi sono ritrovato a fronteggiare non solo i suoi “rimproveri”, ma anche quelli di un suo degno collega, venendo così ad essere totalmente esposto ad un vero e proprio fuoco di fila. Descrivo in sintesi cosa accadde: dopo aver pagato una cifra non esattamente modesta accediamo ad un locale, non propriamente una discoteca, ma un luogo piacevole in cui bere una birra o altra bevanda, scambiare qualche parola ed eventualmente ballare. Io, dopo poco, commisi l’imperdonabile errore di dedicarmi a quest’ultima attività. “Talìa, talìa, guarda che fa” comincia lui additandomi pubblicamente, “Me pare 'o nonno mijo" incalza l’altro dandogli di gomito. Fatto sta che, nel giro di pochi minuti, sembravo divenuto la principale attrazione per un nutrito gruppo di soggetti maschili, in gran parte iscritti, da immemorabile tempo, alle più diverse facoltà presenti nell’Ateneo che aveva avuto la compiacenza di accogliermi tra i suoi studenti.

Ricordo che provai a chiedere spiegazioni al riguardo, per sentirmi rispondere (interpreto e rielaboro le frasi pronunciate) che era da ritenersi socialmente sconveniente, non consono, andare in un locale e ballare, bere una birra seduti ad un tavolo e divertirsi. Si va in un locale pubblico, alla sera, essenzialmente per assolvere due funzioni che nulla hanno a che vedere con il divertirsi: vestirsi «bene», (cioè con addosso abiti che riportino ben in evidenza firma e marchio giusto) e «farsi vedere» e «vedere chi c’è». Se balli o anche solo provi a svagarti, a stare bene, a vivere, sei un tipo strano, non “à la page”, di fatto un truzzo, un coatto, un tamarro, uno sfigato e così via spaziando per le varie regioni italiane.
Attribuii tale personale inadeguatezza al riguardo al mio retroterra provinciale, che mi impediva di comprendere come funzionavano le cose al di fuori dei ristretti ambiti geografico-culturali in cui fino a quel momento mi ero mosso. Ma, come ebbi modo di scoprire qualche tempo dopo, la questione era un’altra: per il mio compagno di camera, evidentemente dotato di grande ego, un’inattaccabile sicurezza di sé oltre che di una immensa “faccia come il c..o”, era solo lui ad impegnarsi in qualcosa di veramente valido e per cui valesse la pena investire le proprie energie. Gli altri, da me al Magnifico Rettore, passando per impiegati comunali, autisti dell’autobus, commesse del supermercato e negozianti vari, non avevano mai niente da fare e non capivano niente. 

Ciò valeva sempre, anche per attività per così dire socialmente previste e diffuse ed universalmente accettate e consentite; ad esempio dopo aver finito di lavorare od essere uscito da lezione fai una passeggiata? sei un babbazzu (sciocco) oppure non hai niente che fare. Ti piace collezionare monete o francobolli? Sei un folle malato oppure non hai niente che fare. Leggi libri? Sei jarrùsu/puppo (effeminato o peggio) oppure non hai niente che fare. Scrivi su un blog? Sei uno scimunito e di sicuro non hai niente che fare.
Solo chi non ha niente da fare può pensare di andare in palestra, in piscina, ascoltare musica, cucinare un arrosto, acquistare un libro, noleggiare un film che non sia dei Vanzina o andare a teatro. Le sue giornate erano troppo piene perché si potesse dedicare a qualcosa del genere, ma considerando bene tutto l’insieme, soprattutto osservandolo con attenzione, avevo capito che in realtà lui non faceva mai una minchia! (non credo sia necessario tradurre). Escludendo il rompere i cabbasisi (capperi) al sottoscritto e poco altro.
Quando mi decisi a metterlo di fronte a questa realtà e vendicarmi di mesi di ingiurie, volendo inoltre godermi il momento in cui avrei effettuato un colpo di mano ribaltando così la situazione, mi sentii rispondere: A megghia parola è chidda ca nun si dici (letteralmente: La migliore parola è quella che non viene pronunciata; ossia: faresti meglio a stare zitto e farti gli affari tuoi).

A quel punto mi era chiaro che l’essenza del suo essere era riassumibile nel porsi come individuo impegnato, talmente oberato di responsabilità ed incombenze, che nessun soggetto “normale” avrebbe mai potuto comprenderne la condizione. Come mi suggerì un suo valido sodale nel corso di quel primo indimenticabile anno accademico “io tenevo 'a capa fresca” (non avevo nient’altro a cui pensare), per cui potevo dedicarmi a frivolezze varie (tra cui sostenere esami) e avrei dovuto capire come funzionavano le cose, motivo per il quale venivo stimolato con un “Ma che staje facenno? 'O ppane?”(cosa aspetti/perché perdi tempo?). Cosa mai avrei potuto ribattere? Comunque all’inizio dell’estate salutai colui con cui avevo condiviso la stanza e mi trasferii in un altro appartamento con altri studenti, certo che lui pensasse che i muratori bergamaschi sia gente che se la mena tutto il giorno e che a Wall Street non si combini nulla tutto il santo giorno.

Recentemente mi è capitato di “incontrarlo” in una chat. Ho scoperto che ha vinto un concorso pubblico nella città in cui ci siamo conosciuti ed in cui avremmo dovuto laurearci, che alle 10.30 di un giorno feriale, al lavoro, aveva appena fatto colazione e preso un caffè, che alle 12.00 sarebbe uscito per andare a prendere i “carusi a scola” e che aveva poco tempo per chattare perché lui non è come me, ovvero «Mih, ma sempre qua sei? Ma com’è che non hai mai niente che fare tu, ah?».

Apecar/Lapa decorata come un carretto siciliano

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