In queste
ultime settimane molti si sono impegnati a dissertare sul Tempo,
il concetto di Tempo e su come ognuno di noi lo vive, lo sta vivendo
e ci ragiona attorno e attraverso. Ho letto diverse cose, chi invita
a godere dei ritmi rallentati, senza poi spiegare come e attraverso
quali modalità o pratiche realmente attuabili o soddisfacenti, altri
invitano a riscoprire il valore del Tempo, alcuni andando o tentando
di andare più in profondità suggeriscono interpretazioni e
valutazioni al confine fra filosofia, senso comune e quotidiana presa
di coscienza. Io non riesco a farmi una mia personale idea riguardo a
cosa significhi, durante questi mesi di forzato illusorio ritiro, il
Tempo, la sua consistenza e la sua eterea sostanza.
Pertanto mi
limito a rileggere qualcosa al riguardo, anche perché comunque
impegnato a livello familiare. Attraverso tali letture mi sono
trovato a riscoprire l'opera di uno dei musicisti più significativi
del '900 e dei primi 20 anni di questo secolo: Arvo Pärt.
Se
dunque è vero che,
prima e forse anche nonostante quello che stiamo attraversando, il
nostro è un Tempo compresso,
velocissimo e spesso troppo denso, il
compositore estone ci offre una sua personale risposta a tale
considerazione, che, permettetemi, ha anche il sapore di una
quotidiana provocazione.
Attivo
da oltre 40 anni, in mirabile ed invidiabile equilibrio fra genuino
minimalismo e influssi che spaziano da una apprezzabile spiritualità
alla riscoperta di radici musicali
(canto
gregoriano e polifonia),
Arvo
Pärt dalla
metà degli anni '70 ha sviluppato una poetica del tutto particolare
da lui stesso definita tintinnabulum
(in latino campanellino)
in cui la dimensione verticale e quella orizzontale si collegano,
sostanziata in espressioni capillari in cui l’idea di sviluppo o
culmine sono totalmente assenti.
Pärt
si collega in modo viscerale a strutture
e linguaggi antichi
in una dimensione
circolare,
arcaica e comunque modernissima, del
pensiero e dell'arte
dove sospensione, rarefazione, ripetizione e scomposizione diventano
caratteristici:
"Potrei
paragonare la mia musica alla luce bianca: essa contiene tutti i
colori, solo il prisma può dividerli e farli apparire. Questo prisma
potrebbe essere l'anima di chi ascolta”.
Una visione religiosa o,
meglio, intimamente
spirituale, perciò non confessionale. I
lavori di Pärt inducono (e chiedono a chi
ascolta) concentrazione
e astrazione,
in netto contrasto con la compulsiva velocità
a cui siamo o saremmo perennemente sollecitati.
A questo proposito invito all'ascolto,
se possibile ripetuto anche quotidianamente, del breve Summa,
originariamente composto nel 1977 per coro a cappella sul testo del
Credo,
rielaborato
per orchestra d’archi e trascritto nel 1991 per quartetto d’archi.
Voce o strumenti, una sola via verso realtà forse più grandi di
noi, in nome di una sana universale umanità, per prendersi del
Tempo, per goderne anche solo una manciata di minuti, forse per
donare un minimo di senso al nostro (in)evitabile
affannarsi e farci affannare.
In
fondo siamo in molti a cercare, alla ricerca. Arvo
Pärt così
ci dice:
“Amo
molto gli zingari, i girovaghi, i viandanti, perché non sono
soddisfatti di quello che hanno e cercano. Amo anche gli alcoolizzati
e i malati nell'anima, perché soffrono e si pongono domande. Sono
loro idealmente i miei compagni di strada. Anche se io mi esprimo con
la musica, soffriamo e cerchiamo le stesse cose".
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