Grazie ad una fortunata disposizione del calendario (compleanno
e san Valentino) ho potuto, nel breve periodo di due settimane, andare
due volte al cinema!
Lo so! Per i comuni mortali tale frequenza è ridicola e
totalmente insoddisfacente, ma per un padre impegnato, oberato da 1000 e più
immani “pataccate” che gli confondono i già incasinati pensieri e assillato
dalle varie incombenze che comporta farsi mantenere una famiglia, due volte in
due settimane è un evento da segnalare e trasmettere a futura memoria.
Orbene, in compagnia della donna che da ormai
diversi anni ha deciso di dedicarsi alla missione di starmi a fianco, ho visto “A
proposito di Davis”, di Joel ed Ethan Coen, e “Tutta colpa di Freud”,
di Paolo Genovese.
Film differenti e anche distanti, non solo in senso geografico, beninteso, ma che ho apprezzato e di cui riporterò qualcosa, in verità vi propongo le mie impressioni.
Film differenti e anche distanti, non solo in senso geografico, beninteso, ma che ho apprezzato e di cui riporterò qualcosa, in verità vi propongo le mie impressioni.
Partiamo (si fa per dire) con i due fratelli Coen.
A proposito di Davis.
A proposito di Davis.
I Coen ci hanno abituato, nei loro film, a personaggi
di contorno, ai margini, che diventano, grazie alla attenzione che gli
dedicano, protagonisti di storie a volte emozionanti, divertenti o anche
tragiche nelle loro accezioni al limite fra comico e grottesco. I perdenti,
nelle loro opere, prendono spazio e si fanno conoscere dal pubblico che,
spesso, simpatizza per loro. I due fratelli non sempre simpatizzano per questi
“sfigati”, ma in questo film sembra proprio che lo facciano.
Seguono il giovane folk singer Llewyn Davis
(origini gallesi) nella New York del 1961, fra il “Village” ed una breve
parentesi a Chicago (dove incontra un intenso F. Murray Abraham). Lo
fanno con estrema attenzione, curando molto bene fotografia e colonna sonora,
in modo da accompagnare il bravo Oscar Isaac in questa sua più che
convincente interpretazione, dove oltre a recitare si cimenta, con apprezzabili
risultati, nel canto.
La regia elegante, con qualche raffinatezza
di stampo europeo, esalta questo sconfitto, predestinato, a suo modo, a passare
da una situazione pessima ad una ancora peggiore, rispettando i propri sogni e
la propria coerenza. Llewyn non viene capito, tantomeno apprezzato, da
nessuno di quelli che ha intorno, familiari compresi (in alcuni casi a loro
è ingeneroso chiedere questo), ma dalla sua parte ha i Coen, che gli
concedono la loro arte, qui veramente ben espressa senza manierismi o eccessi.
Un film in soggettiva, nel quale il
protagonista ha tutto lo spazio necessario e che utilizza al meglio, con
intelligenza e misura. I “comprimari” si mettono al suo servizio, rendendogli
l’onore di una interpretazione da gustare e se possibile premiare. Tra questi
nota di merito per un cupo John Goodman e per Carey Mulligan, che
non si fa spaventare da un “contro ruolo” non facile da gestire.
A sottolineare la sorte del protagonista c’è una struttura
circolare che, sebbene in un primo momento disorienti, ci mostra come nella
vita dello sfortunato cantante nulla “torni” ed i vari ricorsi non sono altro
che la dimostrazione della sua (momentanea o definitiva?) sconfitta.
In realtà c’è anche della vitalità, ma che
funge da contraltare ed è giustamente limitata a pochi attimi che lasciano il
posto alla voce di Llewyn/Oscar. Un che di picaresco che rende godibile
il film e che ci fa apprezzare anche l’irriverente, ma giocoso, omaggio a
“Colazione da Tiffany”.
Apprezzo molto la “citazione”, nella locandina, di “The
FreeWhelin’ Bob Dylan”, album che ha molto stimolato la mia fantasia di
bambino, fin da quando lo scoprii tra i 33 giri di mio padre.
A giovedì per "Tutta colpa di Freud".
A giovedì per "Tutta colpa di Freud".
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