martedì 18 febbraio 2014

A proposito di Davis




Grazie ad una fortunata disposizione del calendario (compleanno e san Valentino) ho potuto, nel breve periodo di due settimane, andare due volte al cinema!


Lo so! Per i comuni mortali tale frequenza è ridicola e totalmente insoddisfacente, ma per un padre impegnato, oberato da 1000 e più immani “pataccate” che gli confondono i già incasinati pensieri e assillato dalle varie incombenze che comporta farsi mantenere una famiglia, due volte in due settimane è un evento da segnalare e trasmettere a futura memoria.



Orbene, in compagnia della donna che da ormai diversi anni ha deciso di dedicarsi alla missione di starmi a fianco, ho visto “A proposito di Davis”, di Joel ed Ethan Coen, e “Tutta colpa di Freud”, di Paolo Genovese.
Film differenti e anche distanti, non solo in senso geografico, beninteso, ma che ho apprezzato e di cui riporterò qualcosa, in verità vi propongo le mie impressioni.



Partiamo (si fa per dire) con i due fratelli Coen. 

A proposito di Davis.



I Coen ci hanno abituato, nei loro film, a personaggi di contorno, ai margini, che diventano, grazie alla attenzione che gli dedicano, protagonisti di storie a volte emozionanti, divertenti o anche tragiche nelle loro accezioni al limite fra comico e grottesco. I perdenti, nelle loro opere, prendono spazio e si fanno conoscere dal pubblico che, spesso, simpatizza per loro. I due fratelli non sempre simpatizzano per questi “sfigati”, ma in questo film sembra proprio che lo facciano.



Seguono il giovane folk singer Llewyn Davis (origini gallesi) nella New York del 1961, fra il “Village” ed una breve parentesi a Chicago (dove incontra un intenso F. Murray Abraham). Lo fanno con estrema attenzione, curando molto bene fotografia e colonna sonora, in modo da accompagnare il bravo Oscar Isaac in questa sua più che convincente interpretazione, dove oltre a recitare si cimenta, con apprezzabili risultati, nel canto.



La regia elegante, con qualche raffinatezza di stampo europeo, esalta questo sconfitto, predestinato, a suo modo, a passare da una situazione pessima ad una ancora peggiore, rispettando i propri sogni e la propria coerenza. Llewyn non viene capito, tantomeno apprezzato, da nessuno di quelli che ha intorno, familiari compresi (in alcuni casi a loro è ingeneroso chiedere questo), ma dalla sua parte ha i Coen, che gli concedono la loro arte, qui veramente ben espressa senza manierismi o eccessi.


Un film in soggettiva, nel quale il protagonista ha tutto lo spazio necessario e che utilizza al meglio, con intelligenza e misura. I “comprimari” si mettono al suo servizio, rendendogli l’onore di una interpretazione da gustare e se possibile premiare. Tra questi nota di merito per un cupo John Goodman e per Carey Mulligan, che non si fa spaventare da un “contro ruolo” non facile da gestire.


A sottolineare la sorte del protagonista c’è una struttura circolare che, sebbene in un primo momento disorienti, ci mostra come nella vita dello sfortunato cantante nulla “torni” ed i vari ricorsi non sono altro che la dimostrazione della sua (momentanea o definitiva?) sconfitta.


In realtà c’è anche della vitalità, ma che funge da contraltare ed è giustamente limitata a pochi attimi che lasciano il posto alla voce di Llewyn/Oscar. Un che di picaresco che rende godibile il film e che ci fa apprezzare anche l’irriverente, ma giocoso, omaggio a “Colazione da Tiffany”.



Apprezzo molto la “citazione”, nella locandina, di “The FreeWhelin’ Bob Dylan”, album che ha molto stimolato la mia fantasia di bambino, fin da quando lo scoprii tra i 33 giri di mio padre.

A giovedì per "Tutta colpa di Freud".



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