Nel corso della vita fin qui vissuta, in ambito
lavorativo, privato e anche solo per scelta o casualità, mi sono spesso trovato
di fronte e ho intrecciato rapporti con la disabilità ed il disagio.
Ho vissuto e probabilmente continuerò a sperimentare
emozioni e relazioni, di vario genere, facendo i conti con parti di me, della
mia personalità e del mio carattere.
Sono nate riflessioni, considerazioni e studi
specifici, ho letto e sperimentato diverse cose riguardo alla disabilità, alla
diversità, alle problematiche ed alle energie messe in campo da parte di
persone, uomini, donne, ragazzi e bambini che vivono ogni giorno “l’essere
disabile”, il “vivere accanto ad un disabile”.
Recentemente, durante la lettura di “Katarina e il
pericolo della neve”, di Renato Di Lorenzo, edito da Foschi Editore,
ho letto questo passaggio, che mi sembra significativo e preciso, nella sua
semplicità, e che riesce a rappresentare molto bene una parte non secondaria, a
volte trascurata, della disabilità vissuta e dell’incontro con una
persona disabile.
“Avevo
l’impressione che Maj, a causa di quel suo difetto fisico, fosse stata educata
a essere inflessibile, a non dimenticare mai, a non perdonare. Ma non le
avevano insegnato a combattere, a non rilassarsi, a no darsi per vinta. Maj non
era una macchina da competizione. Era un corpo nero, quello che ci aveva
spiegato l’insegnante di fisica: una cavità che assorbe e trattiene ogni raggio
di luce senza mai restituirlo, perché il raggio di luce comincia a sbattere
contro le pareti senza più trovare il foro d’uscita, e ogni volta che sbatte
contro una parete questa ne assorbe un po’, finché non è tutto consumato e non
ne rimane nulla”.
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