Blog su Cinema, Letteratura, Arte, Cultura, Tempo libero, Esperienze.
Post su Film, Libri, Mostre, Esperienze di vita, Fumetti, Cartoni Animati e quello che mi piace ed anche che mi piace di meno.
Quanto odio i
festeggiamenti di Capodanno. Tutti vogliono disperatamente divertirsi, cercando
di festeggiare in qualche misera, patetica maniera. Festeggiare che cosa? Un
altro passo verso la tomba? Ecco perché non lo dirò mai abbastanza: qualunque
amore riusciate a dare o a ricevere, qualunque felicità riusciate a rubacchiare
o a procurare, qualunque temporanea elargizione di grazia: basta che funzioni.
E non vi illudete: non dipende per niente dal vostro ingegno umano, più di
quanto non vogliate accettare è la Fortuna a governarvi. Quante erano le
probabilità che uno spermatozoo di vostro padre, tra miliardi trovasse il
singolo uovo che vi ha fatto? Non ci pensate sennò vi viene un attacco di
panico.
(Boris Yellnikoff/Larry
David in “Basta che funzioni”, di Woody Allen - 2009)
Contemplo la campagna: guarda che notte serena e pacifica! Ecco la Luna che sorge dietro la montagna. – O Luna! amica Luna. Mandi ora tu forse su la faccia di Teresa un patetico raggio simile a questo che tu diffondi nell'anima mia?
(Ugo Foscolo, da “Ultime Lettere di Jacopo Ortis”)
Rapunzel: Ho passato 18
anni della mia vita, guardando da una finestra e chiedendomi che cosa avrei
provato vedendo quelle luci salire nel cielo. Ma... Se ora, niente di quello
che ho sognato si avverasse?
Eugène: Si avvererà.
Rapunzel: E se anche fosse?
Che farò poi?
Eugène: Beh, è la parte
migliore direi. Vuol dire che ti cercherai un nuovo sogno.
(Eugène
Fitzherbert/Flynn Rider e Rapunzel, in “Rapunzel”, di Byron Howard e Nathan
Greno - 2010)
Toglimi
il pane, se vuoi,
toglimi l’aria, ma
non togliermi il tuo sorriso.
Non
togliermi la rosa,
la lancia che sgrani,
l’acqua che d’improvviso
scoppia nella tua gioia,
la repentina onda
d’argento che ti nasce.
Dura
è la mia lotta e torno
con gli occhi stanchi,
a volte, d’aver visto
la terra che non cambia,
ma entrando il tuo sorriso
sale al cielo cercandomi
ed apre per me tutte
le porte della vita.
Amor
mio, nell’ora
più oscura sgrana
il tuo sorriso, e se d’improvviso
vedi che il mio sangue macchia
le pietre della strada,
ridi, perché il tuo riso
sarà per le mie mani
come una spada fresca.
Vicino
al mare, d’autunno,
il tuo riso deve innalzare
la sua cascata di spuma,
e in primavera, amore,
voglio il tuo riso come
il fiore che attendevo,
il fiore azzurro, la rosa
della mia patria sonora.
Riditela
della notte,
del giorno, della luna,
riditela delle strade
contorte dell’isola,
riditela di questo rozzo
ragazzo che ti ama,
ma quando apro gli occhi
e quando li richiudo,
quando i miei passi vanno,
quando tornano i miei passi,
negami il pane, l’aria,
la luce, la primavera,
ma il tuo sorriso mai,
perché io ne morrei.
Paul: Bene! Giusto un paio di giorni fa
mi è arrivata una telefonata dal New York Times. Mi hanno chiesto di scrivere
una storia di Natale. Intendono pubblicarla il giorno di Natale. Auggie: È la tua occasione, amico! Quello che ti ci voleva!
Paul: Sì, magnifico. Solo che devo
tirar fuori qualcosa in quattro giorni, e non ho un'idea. Tu non conosci
qualche storia di Natale?
Auggie: Storie di Natale?
Certo! Ne so a tonnellate.
Paul: Ah! Ce n'hai una buona?
Auggie: Una buona? Come
no! Vuoi scherzare? Facciamo così: pagami il pranzo e ti regalo la più bella
storia di Natale che tu abbia mai sentito, che ne dici? E ti garantisco che è
vera ogni parola.
Paul: Allora. Sei pronto?
Auggie: Pronto. Quando
vuoi.
Paul: Sono tutt'orecchie.
Auggie: Mi ricordo quella volta che mi
hai chiesto come ho iniziato a fare le foto. Beh, questa è la storia della mia
prima macchina fotografica. Veramente, prima e unica. Mi segui fin qui?
Paul: Parola per parola.
Auggie: Dunque. Ecco come
sono andate le cose. Okay. Era l'estate del ‘76, all'epoca del mio primo lavoro
per Vinnie, l'estate del Bicentenario. Una mattina al negozio un ragazzo
cominciò a rubare delle cose. Stava giù, alla scansia dei tascabili, e si
infilava le riviste porno sotto la maglietta. Non l'ho visto sùbito, c'era
gente intorno al bancone, ma come me ne sono accorto, ho iniziato a strillare.
Lui è scappato come un coniglio, shhh! E quando sono uscito fuori dal bancone,
aveva già le chiappe sulla Settima Strada. L'ho rincorso per circa un isolato,
poi ho lasciato stare. Gli era caduta qualcosa mentre scappava. E… dato che non
me la sentivo più di correre, l'ho raccolta, per vedere cosa fosse. Era il suo
portafogli. Non c'erano soldi dentro, ma c'era la sua patente, e altre tre o
quattro fotografie. Avrei potuto farlo arrestare, certo, c'era nome e indirizzo
sulla patente, ma sai, mi dispiaceva. Era solo un teppistello. E una volta
viste quelle foto nel portafogli, non ce l'ho più fatta ad essere veramente
arrabbiato con lui. Roger Goodwin. Si chiamava così. In una di quelle foto, mi
ricordo, stava in braccio alla madre. In un'altra aveva un trofeo in mano,
della scuola, e rideva, felice, come se avesse vinto alla lotteria. Proprio non
me la sentivo. Un povero ragazzo di Brooklin. Non era una cosa grave. Tanto chi
se ne importa di un paio di giornaletti porno? E così, mi sono tenuto il
portafogli. Ehm… ogni volta che sentivo il bisogno di riportarglielo, io
rimandavo, e non l'ho mai fatto. Finché arriva Natale, e io non ho niente da
fare. Vinnie voleva invitarmi, ma la madre si era ammalata, e lui e la moglie
erano corsi a Miami, all'ultimo minuto. Quindi me ne stavo a casa mia, quella
mattina. Mi sentivo un po’ solo. Quando l'occhio va sul portafogli di Roger
Goodwin. Mi sono detto: “che diavolo, perché non faccio qualcosa di buono? Mi
infilo il cappotto e gli riporto il portafogli”. Abitava dalle parti di Boerum
Hill, nelle case popolari. Mi ricordo che faceva un freddo cane, quel giorno.
Mi sono perso molte volte prima di trovarlo. Le case sono tutte uguali, laggiù.
Giri nello stesso punto e credi di stare da un'altra parte. Comunque, alla fine
arrivo al palazzo che cercavo, alla casa che cercavo, e suono il campanello.
Non succede niente. Penso che non ci sia nessuno. Suono di nuovo, per esserne
sicuro. Ormai sto per andarmene; aspetto un altro po’, e sento trafficare
dietro la porta. E una voce di vecchia chiede: “Chi è?”. E io dico: “Sto
cercando Roger Goodwin”. “Sei tu, Roger?”, mi dice. E dà quindici mandate per
aprire la porta. Avrà avuto almeno 80 anni, se non addirittura 90! E la prima
cosa che noto di lei è che è cieca. “Lo sapevo che saresti venuto, Roger”,
dice. “Lo sapevo che non avresti dimenticato nonna Ethel a Natale”. E poi apre
le braccia, e mi si avvicina per abbracciarmi. Non ho tempo per riflettere,
capisci? Devo dire qualcosa in fretta. E prima che realizzo ciò che sta
accadendo, le parole mi escono dalla bocca. “Proprio così, nonna Ethel”, dissi,
“sono tornato a trovarti per Natale”. Non mi chiedere perché l'ho detto. Non ne
ho la minima idea. Mi è uscito così. D'improvviso la signora comincia ad
abbracciarmi, davanti alla porta, e anch'io l'abbraccio. Era come se tutti e
due avessimo deciso di giocare questo gioco senza doverne stabilire le regole.
Sapeva benissimo che non ero il nipote. Era vecchia e debole, ma non così
andata da non saper distinguere un perfetto sconosciuto ad uno di famiglia. Fu
felice di fare come se fosse vero. E dato che non avevo di meglio da fare, fui
contento di assecondarla. Insomma, entrammo in casa e passammo la giornata
insieme, e quando mi chiedeva quello che facevo, io le mentivo. Le raccontai
che avevo trovato lavoro in una tabaccheria, le dissi che stavo per sposarmi,
inventai centinaia di storie, e lei faceva finta di credere a ogni cosa. “Ma
bene, Roger”, diceva, muovendo il capo e sorridendo, “ho sempre saputo che ti
sarebbe andata bene”. Mah. Dopo un po’, cominciai ad avere fame, e siccome in
casa non c'era niente da mangiare, andai a cercare un negozio lì vicino, e
tornai su carico di roba. Pollo arrosto, zuppa di verdure, patate bollite,
insomma un mucchio di roba. Nonna Ethel aveva un paio di bottiglie nascoste in
camera da letto, eh, eh, eh! E così fra tutti e due riuscimmo a mettere su una
discreta cena di Natale. Eravamo tutti e due un po’ brilli, mi ricordo, e dopo
pranzo andammo a metterci di là, nel soggiorno, dove si stava seduti più
comodi. Dovevo fare pipì, così a un certo punto ho chiesto scusa e sono andato
al bagno, in fondo al corridoio. E qui la cosa prende un'altra piega. Era già
stato stravagante giocare al nipote di nonna Ethel, ma quello che feci poi fu
decisamente folle, e non me lo sono mai perdonato da allora. Entro nel bagno, e
accatastate contro il muro vicino alla doccia, vedo una pila di sei o sette
macchine fotografiche, del tutto nuove. Macchinette trentacinque millimetri,
ancora nella scatola. Non avevo mai scattato una foto in vita mia, e tantomeno
avevo mai rubato. Ma come vidi quella pila di macchinette abbandonate nel
bagno, decisi che ne volevo una tutta per me. Una come quelle. E senza pensarci
un istante, ne prendo una, me la metto sotto il braccio, apro la porta del
bagno e torno nel soggiorno. Non ci ho messo più di tre minuti, ma nel
frattempo nonna Ethel si era addormentata. Troppo Chianti, immagino. Andai in
cucina, a lavare i piatti, e in mezzo a quel fracasso lei dormiva come una
bambina. Non c'era motivo di disturbarla, quindi decisi di andarmene. Non potei
lasciarle neanche un biglietto di saluto, dato che era cieca. Me ne andai e
basta. Misi il portafogli del nipote sul tavolo. Ripresi la macchinetta e
lasciai l'appartamento. Fine della storia.
Paul: L'hai più rivista? Sei mai
tornato a trovarla?
Auggie: Una volta, tre o
quattro mesi dopo. Io stavo malissimo per il furto della macchinetta, non
l'avevo neanche usata. Finalmente decisi di riportarla, ma nonna Ethel lì non
c'era più. Qualcun altro viveva in quell'appartamento, e non sapeva dove fosse
finita.
Paul: Probabilmente era morta.
Auggie: Sì, probabilmente.
Paul: Il che vuol dire che ha passato il
suo ultimo Natale con te.
Auggie: Forse sì. Non ci
avevo mai pensato.
Paul: È stata una buona azione, Auggie.
Hai fatto una bella cosa per lei. Auggie: Le ho mentito, le ho rubato un oggetto, e tu la chiami una buona
azione?
Paul: Beh, l'hai fatta felice. La
macchinetta era sicuramente… rubata, non l'hai tolta al… al proprietario.
Auggie: Qualsiasi cosa nel nome
dell'arte, eh?
Paul: No, non è proprio così. In fondo
ne hai fatto un buon uso.
Auggie: E tu ora hai la
tua storia di Natale, no?
Paul: Sì, immagino di sì. Il raccontare
è un vero talento, Auggie. Per fare una bella storia devi sapere quali bottoni
spingere. Tu sei al pari dei maestri.
Auggie: Che vuoi dire?
Paul: Voglio dire che è una bella
storia.
Auggie: Cazzo, se non
confidi i tuoi segreti agli amici, allora che amico sei?
Paul: Giusto. Non varrebbe la pena di
vivere altrimenti, no? “Il racconto di Natale di Auggie Wren”, scritto da Paul
Benjamin.
Ogni
volta che mi capita di parlare di montagna, o di guardare una cartina delle
Dolomiti e “salta fuori” San Martino di
Castrozza, il mio pensiero va a “La
Signorina Else”, di Arthur
Schnitzler.
Ad
una prima considerazione il motivo è legato al dato che quanto narrato nel
romanzo è ambientato proprio nella località trentina, che all’epoca della
vicenda raccontata era ancora parte dell’Impero
Austro-Ungarico (la stesura invece è
del 1924, perciò i luoghi erano divenuti italiani).
Già
questo sarebbe sufficiente a motivare l’associazione, ma si aggiunge un altro,
non secondario elemento. Ovvero nella mia esperienza di passeggiate in montagna, per lo più in solitaria o in piccolo
gruppo, spesso durante le ore di camminata mi sono trovato a dare ampio spazio
a pensieri, riflessioni e considerazioni di varia natura. Frasi, brevi
dialoghi, ricostruzioni o addirittura anticipazioni di eventi hanno di
frequente affollato la mia mente, non so bene se stimolate da ciò che potevo
ammirare o fattesi spazio nonostante quanto di bello e meraviglioso avessi
intorno a me.
Più
o meno è quello che accade alla giovane Else, ragazza di buona famiglia,
rappresentante della borghesia viennese
inizio 900. I suoi pensieri, i suoi struggimenti, il monologo interiore che copre la quasi totalità del romanzo, sono i
protagonisti e mostrano quello che le passa per la testa, le intime sensazioni
e le emozioni dell’ancora adolescente figlia di un noto avvocato che, a causa
di una condotta non proprio irreprensibile, la mette in una spiacevole
situazione. Romanzo quindi moderno, poiché il flusso interiore diverrà vero e
proprio stile da lì a qualche anno, dopo essere stato anticipato e proposto
dallo stesso Schnitzler ne “Il
Sottotenente Gustl”, che ne è probabilmente il primo esempio nella
letteratura in lingua tedesca.
Perciò
i dilemmi ed il conflitto, che
nascono in contemporanea e che hanno la meglio anche sulla logica e le ragioni
apparentemente più rigorose, danno origine ad un dramma psichico, che Schnitzler rende in maniera semplice e
particolareggiata e quindi efficace. Per di più presentandolo da un punto di
vista privilegiato, ovvero la coscienza stessa della protagonista.
Educata alla virtù
secondo le ferree regole imposte a una giovane donna di buona famiglia, Else
viene costretta a contravvenire ai principi morali che le sono stati impartiti
proprio dai genitori, che la obbligano a concedersi a un amico di famiglia. Uno
dei testi brevi più significativi di Schnitzler (1862-1931) e dell'intera
letteratura mitteleuropea. (da ibs.it)
A quell'ora, mentre la luna sbocciava come una grande rosa fra i cespugli della collina e le euforbie odoravano lungo il fiume, anche le padrone di Efix pregavano:
donna Ester la piú vecchia, benedetta ella sia, si ricordava certo di lui peccatore: bastava questo perché egli si sentisse contento, compensato delle sue fatiche.
Racconto/romanzo breve dello scrittore austriaco Stefan Zweig, ne ritengo “Ventiquattr'ore nella vita di una donna” uno dei suoi più avvincenti e riusciti, trascurando la sensazione di essere di fronte ad un “esercizio di stile” su un tema ed un caso quasi da scuola di retorica.
Scritto nel 1927, si narra di una donna e del suo incontro con un uomo, un giovane, dominato dalla passione per il gioco d’azzardo, nell'atmosfera opprimente e febbrile del Casinò di Monte Carlo. Lei lascerà tutto della sua confortevole e privilegiata vita da ricca borghesia europea, per stare accanto all'uomo che ha salvato da un probabile suicidio? Lui si rivelerà degno delle attenzioni e dell’amore di questa donna? Se il cuore della narrazione fosse limitato a questo, ci si troverebbe a leggere di una storia tragico-romantica con magari qualche pagina opportunamente spruzzata di rosa e vagamente, qua e là, condita con dettagli e immagini di passione erotica e di sentimenti esasperati.
In questo caso, invece, Zweig, con un artificio narrativo semplice ma, allora come oggi, efficace, ci fa raccontare la vicenda dalla donna stessa protagonista delle turbolente e a loro modo esaltanti 24 ore del titolo, ormai anziana. Più propriamente lei racconta di sé e di quanto ha vissuto a un interlocutore pressoché sconosciuto, ma che lei ritiene essere l’unico possibile destinatario della sua narrazione.
Una confessione, il racconto di un amore, di una ossessione che l’ha travolta e trascinata in una spirale di tormento ed estasi. Non è tanto la descrizione degli effetti del demone del gioco sul fisico e lo spirito di un personaggio essenzialmente fragile ed esposto ad avvincere il lettore, ma la rinnovata capacità dello scrittore austriaco di indagare ed esprimere i dettagli ed i trascorsi dell’animo umano. La signora narrante svela un singolo episodio del suo passato, ma così facendo si procura l’occasione per mostrare come un dettaglio possa rappresentare e sintetizzare l’intero corso di una vita.
Al limite di un processo di espiazione, le cui pagine catturano il lettore in un crescendo di tensione psicologica, protagonisti sono i conturbanti e complessi meccanismi che dominano la mente e l’anima umana quando si trova in balia delle passioni, siano esse originate dall'amore, con tutta la sua incontrollabile sensualità, o quelle legate al gioco d’azzardo, con tutta la loro carica distruttiva.
Un racconto che si definisce anche come riflessione sul proprio presente e su quanto vissuto, perché “invecchiare non significa altro che non avere più paura del proprio passato”.
Primi anni Venti. Uno scandalo sconvolge la sonnolenta vita di un lussuoso hotel della Costa Azzurra: Madame Henriette, moglie e madre irreprensibile, fugge nottetempo con un giovane bellimbusto francese appena conosciuto. Subito, la tresca infiamma il pettegolezzo tra i villeggianti: unico a prendere le difese della donna è il narratore-protagonista. Colpita dall'accaduto, Mrs. C., una distinta gentildonna inglese, decide di confessare proprio a lui il suo più intimo e scandaloso segreto: il racconto delle ventiquattr'ore che trent'anni prima cambiarono per sempre la sua vita. Alternando con maestria tensione narrativa e sottile indagine psicologica, Zweig ci regala un racconto moderno e appassionato sull'imprevedibilità del destino e la forza incontrollabile dei sentimenti. (da garzantilibri.it)
Trama
semplice ed essenziale, quasi banale per “Il
Postino suona sempre due volte”. Lui, lei, l’altro.
Strade
polverose della Provincia Americana
mortificata dalla Grande Depressione, un vagabondo senza arte né parte che
cercando di rimediare un pasto si ritrova coinvolto in una spirale di passione, inganno, violenza e morte.
Lui
è Frank Chambers.
Lei
è Cora.
L’altro
il di lei marito, il greco Nick Papadakis, proprietario della tavola calda e
pompa di benzina dove Frank finisce per essere assunto.
Accetta
il lavoro a causa di Cora, ed il lettore già dopo poche pagine è coinvolto
nella sua ossessione per lei, che ha “un’aria
imbronciata e un certo modo di sporgere le labbra che mi fece venir voglia di
masticargliele.”
La
passione fra i due è totale e
assoluta, non ammette pause o intralci. Il marito
è un ostacolo da eliminare, perché i due amanti possano continuare la loro
relazione selvaggia e bollente come solo una dark lady, seppur non propriamente bella, ed uno spiantato affamato
di vita possono vivere.
L’epilogo
sembra già scritto e gli eventi infatti, quasi casualmente, precipitano, fino
al drammatico finale.
Quello
che mi rapisce, oltre la scrittura agile di Cain,
scattante, al limite dell’essenziale, è la drammatica purezza emotiva dei
protagonisti. Del greco Nick, tanto impegnato a lavorare e a far sua una fetta
del “sogno americano”, da non
rendersi conto di quanto accade accanto a lui, e quella criminale degli amanti,
tanto detestabili quanto beneficiari di una certa perversa benevolenza, animati
da un trasporto quasi infantile fino all'omicidio.
Nessuna
introspezione psicologica, poiché ci sono solo i fatti, non da giudicare, ma da
prendere così come sono, all'insegna di un noir
come nessuno prima e come molti dopo cercheranno di scrivere.
Una
trama che ho definito semplice, ma dannatamente efficace, tanto che persino
Luchino Visconti ne fu ispirato, per il suo film opportunamente intitolato
“Ossessione” (1943), anche se la
versione cinematografica più nota è sicuramente la omonima, bollente, pellicola
di Bob Rafelson(1981) con Jessica
Lange e Jack Nicholson.
Sulla
copertina dell’edizione Adeplhi c’è
un’immagine del film diretto nel 1946 da Tay Garnett, e le mie simpatie vanno
verso questa versione, non fosse altro che per la presenza di Lana Turner.
“Per, per tutta la
vita ho sempre vissuto e lavorato in una grande città. Perché? O, ora che ci
penso è piuttosto imbarazzante, sì, si perché ho, ho questa paura degli spazi
chiusi. Sì, t-tutto mi fa sentire in trappola, in continuazione. Sì, mi, mi
dico sempre che ci deve essere qualcosa di meglio là fuori, ma, f-forse penso
troppo, e io credo che risalga al fatto che ho avuto un'infanzia molto ansiosa.
Sa, mia madre non aveva mai tempo per me. Insomma, quando si è il figlio di
mezzo in una famiglia di 5 milioni non ricevi nessuna attenzione, voglio dire,
com'è possibile. E ho sempre avuto questa, questa storia dell'abbandono,
sapesse, che mi affligge. Mio padre era fondamentalmente un fuco come ho detto
e spiccò il volo quando io ero ancora una larva. E il mio lavoro, poi. Non mi
faccia incominciare, perché mi irrita molto. Vede, io non sono tagliato per
fare l'operaio, glielo dico subito, io, mi-mi sento fisicamente inadeguato,
cioè, io nella mia vita non ho mai sollevato qualcosa che andasse oltre 10
volte il mio peso corporeo e arrivare al dunque: maneggiare la terra, ecco, non
è la mia idea per una carriera gratificante. E tutta questa colata di
entusiasmo per il super organismo che, sa non posso capire, ci provo ma non la
capisco, insomma, io dovrei fare tutto per la colonia e, e che ne è dei miei
sogni?! Che ne è di me?! Insomma devo credere che esista un posto là fuori migliore
di questo o mi raggomitolerei, in posizione fetale piangerei. L'intero sistema
mi fa sentire... insignificante.”
(Z
in “Z la formica”, di Eric Darnell e Tim Johnson - 1998)
Durante le ultime settimane siamo tornati a vedere drammatiche immagini di dolore, sofferenza e speranza, ci siamo dati l’occasione di leggere di profughi, immigrazione, clandestini e difficile, forse reticente accoglienza. Nei giorni scorsi mi è tornato in mente ed ho ripensato ad un film del 2009 che di immigrazione, amore, ricerca e desiderio di una vita diversa, se non proprio migliore, fa il suo tema centrale.
“Welcome”, del francese Philippe Lioret, meriterebbe diversi passaggi televisivi e di essere proposto e riproposto all’attenzione di quanti, demagogicamente e magari con atteggiamento militante decisamente fuori luogo e fastidioso, inneggiano alla “linea dura” contro gli invasori o, di contro, dipingono come “fratello” o “liberatore” chi giunge nel nostro Paese, od in Europa, da paesi lontani non solo geograficamente.
Lontano da facili semplificazioni e pulsioni centrifughe e/o centripete, il regista ed il protagonista Vincent Lindon, che offre una intensa e drammaticamente contenuta e misurata recitazione, mettono in scena una coinvolgente storia d’amore e di vita, dove i sentimenti e la militanza sociale, quando non politica, si incontrano e rendono giustizia alla realtà di questi anni. Realtà che è piena di sfumature, complessa, difficile da vivere e da rappresentare.
Una narrazione lacerante ed istruttiva, che non nasconde le linee d’ombra e le responsabilità, le colpe persino, sia di chi arriva che di chi si trova nella scomoda posizione di accogliente. Uno dei meriti è rendere evidente come la xenofobia, o pur la sola intolleranza, sia anche la manifestazione della paura che molti di noi provano di fronte a chi è spinto da un’altra paura, se non proprio speculare quantomeno tragicamente simmetrica. Un altro merito è rendere giustizia a differenti posizioni e ragioni, di chi fugge e di chi si sente, a ragione o a torto, ma sempre individualmente, assediato o accerchiato, anche dai propri compatrioti, dai colleghi di lavoro, dai vicini di casa.
Pertanto rendere un dramma sociale, quale è l’immigrazione clandestina in Europa, all’interno di un dramma privato, mi sembra una scelta azzeccata ed efficace, poiché riesce a rappresentare le vicende e “la vicenda” senza esagerazioni o derive ideologico-utopistiche.
Lindon è istruttore, amico, confidente e alla fine “padre” di un ragazzo iracheno in fuga dal suo paese, giunto a Calais per raggiungere, nel Regno Unito, la ragazza che ama. E qui, grazie alla funzionale ed efficace proposta del tema sentimentale, si tratta un’altra questione, niente affatto secondaria. Gli immigrati lasciano il proprio Paese natale, ma rimangono legati ad abitudini, usi e costumi che rischiano di divenire pesante eredità, grave fardello che imprigiona e da cui sembra impossibile derogare. Una nuova vita che sembra troppo simile alla vecchia, nonostante migliori condizioni materiali.
In questi giorni è in programmazione nei cinema
italiani un film documentario su Steve McQueen.
Presento la mia personale cinquina di film dell’attore
statunitense morto 35 anni fa e come mio solito aggiungo due film in veste di
bonus.
La
grande fuga(The Great
Escape), di
John Sturges (1963): ne ho già parlato a proposito dei film sulla SecondaGuerra Mondiale. Probabilmente il primo in cui ho fatto la conoscenza di Steve
McQueen, prigioniero dei Tedeschi in un campo appositamente creato per “metteretutte le mele marce in un paniere”. Volto con un sorriso coinvolgente ed
espressione beffarda, per un soldato deciso e determinato a fuggire, persino
compiendo evoluzioni in moto.
Scene Cult: lui che gioca con una palla da baseball in cella
d’isolamento.
La
prima volta
La
seconda
La
terza
Cincinnati
Kid(The Cincinnati Kid), di Norman Jewison (1965):
memorabile e da gustare il duetto fra Cincinnati Kid/Steve McQueen e Lancey
Howard/Edward G. Robinson, per un melodramma attorno al tavolo da poker, con
fine analisi psicologica e ottima resa dei caratteri, del contesto e degli
ambienti.
Scena
cult: la
scala reale di Robinson “in faccia” ad un annichilito McQueen.
Bullitt, di Peter Yates (1968):
cinico e disincantato con uno stile ed una eleganza che pochi sono riusciti ad
eguagliare, il tenente della squadra omicidi della polizia di San Francisco, interpretato
dal nostro eroe entra a pieno diritto fra i miei personaggi preferiti. Un
poliziesco sempre in movimento per questa Scena cult: un imperdibile e forse irripetibile reale
inseguimento a bordo di una Ford Mustang.
Getaway,
di Sam
Peckinpah (1972): film d’azione in cui gli stessi miti proposti vengono
bellamente presi di mira in un’opera di decostruzione tipica del regista.
Elementi tipici del film noir e del tema dell’inseguimento incontrano una non
disprezzabile indagine sulla psicologia dei caratteri. Da un romanzo di Jim
Thompson, uno dei più bei personaggi interpretati dal buon Steve, ovvero il
fuorilegge “Doc” McCoy.
Scena cult: la sparatoria nell'hotel.
Papillon, di Franklin J. Schaffner
(1973): nonostante tutto un film d’avventura, più che un documento sulla
disumanità e forse inutilità di un carcere duro. Il film gode delle ottime
interpretazioni dei protagonisti, Dustin Hoffman ed ovviamente Steve McQueen
probabilmente nella sua prova artisticamente più convincente, della
sceneggiatura drammatica tratta dall’omonimo romanzo e dell’ambientazione
esotica. È sufficiente per farne una ottima visione.
Scena cult: il finale, con l’abbraccio
fra Papillon e Louis e la famosa “frase di saluto” agli aguzzini.
Bonus:
Quelli
della San Pablo(The
Sand Pebbles),
di Robert Wise (1966): McQueen marinaio.
Tom Horn, di William Wiard (1980):
penultimo suo film in un western che assomiglia molto ad una metafora della sua
stessa vita.