mercoledì 29 agosto 2018

Il suono dei tuoi piedi nudi




Viviamo in case diverse
ma io ascolto il suono
dei tuoi piedi nudi quando
ti alzi ogni mattina.

(Gustavo Borga) 







lunedì 27 agosto 2018

Citazioni Cinematografiche n.265

In fondo chi se ne frega se perdo questo incontro, non mi frega niente neanche se mi spacca la testa, perché l'unica cosa che voglio è resistere, nessuno è mai riuscito a resistere con Creed, se io riesco a reggere alla distanza, e se quando suona l'ultimo gong io sono ancora in piedi... se sono ancora in piedi io saprò per la prima volta in vita mia che... che non sono soltanto un bullo di periferia. 
(Rocky Balboa/Sylvester Stallone in "Rocky" di John C. Avildsen - 1976)



venerdì 24 agosto 2018

Cartoni Animati: Storytelling e Musica









Principalmente due sono gli elementi che mi amareggiano riguardo buona parte dei cartoni animati trasmessi attualmente in televisione e che anche i miei figli guardano.
In molte serie animate proposte manca pressoché totalmente la narrazione, lo storytelling che un importante ruolo invece rivestiva all'interno di vecchie produzioni. Un tempo si seguivano le peripezie, le avventure, le scoperte, le gioie ed i dolori di uno o più protagonisti, fossero animali antropomorfi, giovani uomini, bambini, coraggiosi e volitivi orfani, fanciulle vicine all'adolescenza o all'età adulta, con forti componenti realistiche, storiche o elementi naturalistici, magici/fantasiosi o di altro genere. Così ci si appassionava a Candy Candy, Remì, Gigi la trottola o alle varie eroine a cui venivano affidati specifici poteri, a termine come Creamy/Yu o senza scadenza come nel caso di Sandy ed altre ancora. Persino i cartoni animati con i “robottoni” (mecha per i più pignoli) avevano una loro trama, a volte lunga, con evoluzione dello scontro fra “Bene” e “Male”, ovvero fra Terra ed invasori alieni, nonché del giovane protagonista. All'interno di ogni genere, poi, c'erano maturazioni delle trame, sviluppo della complessità delle vicende, come, ad esempio nell'ultimo filone citato, il salto di profondità e qualità interpretativa e di analisi fra Mazinga Z e Gundam. 
 


 







Ora, invece, parecchie produzioni offrono decine di episodi autoconclusivi, del tutto od in gran parte slegati l'uno dall'altro, senza un legame fra di loro, in modo da essere sempre facilmente fruibili, senza la necessità di dover seguire quotidianamente lo sviluppo di una trama, di cui si rischierebbe di perdere il filo. Personaggi che hanno poteri e risorse senza che si sappia come ne siano venuti in possesso, bambini o giovani adulti che ricoprono ruoli e posizioni di cui lo spettatore non conosce le caratteristiche o come ci siano arrivati (Peter Parker/Spider Man vs Superpigiamini, tanto per fare un esempio).
Un certo ruolo lo riveste anche l'attuale modalità di “utilizzo” e la visione di certe serie animate. In sintesi: quando ero bambino e con me lo erano tanti altri che ora sono genitori, si vedeva un episodio al giorno delle proprie serie preferite all'interno di specifici contenitori televisivi previsti nell'ambito della programmazione quotidiana su canali generalisti. Per cui si impiegava tempo per arrivare alla “fine” della storia, anche diversi mesi nel caso delle serie più lunghe come “Peline Story”, “Rocky Joe” o “Lady Oscar” (ma gli esempi potrebbero essere tanti e vari). Nella Storia che iniziava con l'episodio 1 e finiva con l'episodio XX, aveva imprescindibile ruolo una trama sviluppata con impegno e lodevole capacità, composta di avvenimenti anche cruciali, personaggi vari e non sempre fissi che completavano ed arricchivano l'insieme, fatto di elementi positivi come negativi, sorrisi come lacrime, in cui a volte tristezze e lutti si alternavano con le felicità e le gioie dei protagonisti. 
Risulta quindi quantomeno singolare constatare come proprio nell’era storica che sembra mostrarne il suo abuso da parte di svariate figure con ruoli politici/religiosi/formativi/informativi ed altro, lo storytelling, come detto veicolo principale in passato delle storie e cartoni animati per bambini/ragazzi, abbia abbandonato il genere, riducendolo così ad una serie di episodi singoli ed autonomi, nei casi peggiori a striscie animate cadenzate da buchi neri logici e infarcite di demenzialità ed idiozie, senza nessi logico-narrativi.



 










Il secondo elemento che mi interessa approfondire un po' è la mancanza di attenzione alla parte musicale. Non mi riferisco solo alle sigle, che un tempo erano “il biglietto da visita” di ogni serie, ragione per cui le si imparava a memoria, si acquistavano le musicassette che le raccoglievano (una per ogni annualità di cartoni animati che andava di pari passo con l'anno scolastico), ed ancora oggi ci sono folte schiere di flippati appassionati che ne compongono compilation e vanno ai concerti di alcuni dei nomi “storici” delle sigle, come I Cavalieri del Re o Cristina D'Avena, punte di diamante o quasi di una vasta serie di voci più o meno “prestate” agli anime ed ai cartoni animati. A parte le sigle, ogni cartone “di una volta”, diciamo fin dalle prime produzioni anni 30 per giungere agli anime giapponesi anni 70/80/90, dedicavano grande attenzione alle musiche, fossero originali o prese a prestito da autori classici, jazz, swing e altro ancora. 



Ricordo Bugs Bunny che tenta di suonare la “Rapsodia Ungherese n.2” di Franz Liszt mentre un beffardo topolino lo disturba, oppure l'intera banda Disney che suona parti del Gugliemo Tell rossiniano con Topolino direttore d'orchestra. Oppure le musiche degli episodi di “Tom and Jerry”, così come quelle di Will Coyote, Speedy Gonzales, Duffy Duck, Porky Pig, Gatto Silvestro, che probabilmente hanno riscosso e tuttora potrebbero riscuotere successo grazie alle note e composizioni eseguite, a volte lampi di suono, oppure melodie semplici o composite, serie armoniche o file di note impazzite. Pensate: ad ogni movimento di Bugs Bunny o Will Coyote viene associato un particolare suono, che spesso proveniva da uno degli elementi di un’orchestra sinfonica. Ogni particolare era studiato e scelto con cura, con tutti i generi, dal jazz alla classica considerati utili, efficaci ed essenziali alla realizzazione dei cartoni animati, dalla sua parte grafico-animativa a quella sonora. 

 

Mi piace pensare che in questo modo i bambini facessero la conoscenza della Musica. Fosse classica, pop, sinfonica, da camera, operistica, jazz, swing o altro, le immagini veicolavano il sonoro e da questo traevano ulteriore forza e vitalità. Anche gli anime facevano la loro parte. C'erano motivi musicali ricorrenti che sottolineavano i passaggi fondamentali delle storie, alcuni momenti importanti o i personaggi principali, con temi appositamente composti. Faccio l'esempio della serie “Heidi”, le cui “musiche di sottofondo” erano molto importanti, fondamentali quanto la sigla cantata da Elisabetta Viviani. Polke, walzer, piccole romanze o brani pop-sint che creavano l'atmosfera dei monti, evidenziavano le emozioni della piccola protagonista e dei suoi amici, introducevano ogni episodio o fungevano da commiato. Da qualche anno è possibile ascoltarle pressoché tutte su specifici canali youtube.




Molti cartoni animati che guardo insieme ai miei figli non hanno questo elemento, alcuni neanche una sigla decente o degna della funzione che dovrebbe svolgere. Ritorna ovviamente l'elemento della tipologia di trasmissione, offerta e fruizione, che ora rende possibile vedere anche cinque o sei episodi uno dopo l'altro. Questo se ci si limita alla televisione, se poi ci si sposta sulle piattaforme in streaming il numero si alza notevolmente. La sigla non ha più senso, anzi sarebbe una noia risentirla più volte ogni pochi minuti (questo anche perché la durata dei singoli episodi è diminuita rispetto ad un tempo, facilitando la visione a ruota libera anche di un'intera serie o “stagione” della stessa). A ciò si aggiunge una certa noncuranza delle musiche di sottofondo o di accompagnamento, con suoni che si limitano, quando va bene, ad essere onomatopeici, oppure sono assenti o semplice rumore, che nulla aggiunge ai dialoghi o al visivo. L'eclissi del sonoro, assente o semplicemente inutile od insulso in molte serie. Che peccato!


Ma forse c'è ancora speranza: fra ciò che guardo in TV, in alternativa a quanto posso scegliere io da vedere con i miei bimbi, vi è un'eccezione!
Masha e Orso” è un piccolo capolavoro, che alla alta qualità dei disegni, degli sfondi, del rapporto “verticale” fra i due protagonisti aggiunge una grande attenzione alla musica, al sonoro ed al suo ruolo all'interno della macrotrama e dei singoli episodi.

Si va dalle citazioni delle colonne sonore cinematografiche ai capolavori del repertorio sinfonico. Dalle suggestioni gioiosamente western ai brani tipici dei film sportivi, dall'“Also sprach Zarathustra” di Richard Strauss che immediatamente riporta all'immaginario kubrickiano de “2001” al ritmo della “Rapsodia ungherese” di Brahms, passando con medesima arte ed efficacia attraverso Beethoven e Scott Joplin, senza dimenticare la dance ed il pop più evocativo e divertente. In “Masha e Orso” non mancano le composizioni originali, che hanno lo stesso valore dei classici, che sarebbe bello i miei bambini imparassero ad ascoltare anche con l'aiuto di un orso delle foreste russe e della piccola bambina che lo tormenta. Quantomeno perché così, magari, riterrebbero il loro babbo meno noioso quando in auto o nel fine settimana inserisce nel lettore un cd di Mozart o Chopin, di Chet Baker o Bill Evans.



In fondo la musica di un cartone animato può aiutare molto, veicola in modo semplice e divertente il senso ed il gusto di brani musicali, che divengono a volte più importanti del resto, a maggior ragione se il cartone in questione non ha pressoché per niente dialoghi. Un po' come poteva accadere in alcuni film muti, in “Masha e Orso” il formato è quello, ovvero poco dialogo e tanto spazio ai suoni ed alla musica. Il contrario di tanti cartoni suoi coevi, che hanno così tanto dialogo e parlato, a volte stupido, inutile e superfluo, che la musica non significa più molto e viene essa stessa svilita ed impoverita delle sue caratteristiche.



La speranza è che una parte dei nostri bambini riesca, come è successo a molti di noi, a crescere con la musica classica e con la buona musica in generale senza quasi accorgersene. Un effetto educativo con risvolti parainconsci, come succedeva con brani del "Barbiere di Siviglia", con il “Bolero” di Ravel, Gershwin della “Rapsodia in Blu”, la serenata notturna di Glenn Miller o le suggestioni dateci da Chopin, Čajkovskij, dalla voce di Ella Fitzgerald o di Mina. Brani che erano inseriti nella programmazione quotidiana ed in molti cartoni animati o come sigle di trasmissioni radiotelevisive.

Gli uni come gli altri ci rendevano familiari brani e canzoni, probabilmente non ne conoscevamo autori ed interpreti, ma li avremmo imparati successivamente. Ciò vale per la musica classica come per altri “classici”, da Frank Sinatra a Elvis Presley, passando per Louis Armstrong. 


martedì 21 agosto 2018

Giallo, Noir & Thriller/57


Titolo: La Rete a Maglie Larghe

Autore: Håkan Nesser

Traduttore: Carmen Giorgetti Cima

Editore: Guanda – 2001


Da diversi anni desideravo leggere i libri della serie del commissario Van Veeteren, ad opera dello scrittore svedese Håkan Nesser. “La Rete a maglie larghe” ha visto la sua prima pubblicazione italiana nel 2001 per la casa editrice Guanda. Mi sono procurato proprio quell'edizione ed ho così potuto far finalmente diretta conoscenza dell'autore e del suo personaggio, che vive nella immaginaria cittadina nordeuropea di Maardam.

Un inizio molto noir e gustosamente coinvolgente, grazie al carattere ed alla descrizione del fin troppo facile da individuare colpevole, della sua amnesia e del suo spaesamento di fronte al cadavere della moglie ed al fatto che proprio lui sembra poter essere l'unico ad averne commesso l'omicidio. Colpevole per tutti, ma non per il commissario Van Veeteren, che “simpaticamente” brusco ed antipatico si ostina a credere alla sua innocenza, anche contro le dichiarazioni dell'innocente stesso. Inizia così la parte più propriamente investigativa e “gialla” del romanzo, con viaggi, pedinamenti, interrogatori, incontri più o meno organizzati, telefonate che si connotano di mistero e la caparbietà, l'ostinazione del commissario, che non disdegna qualche birra ed una partita a badminton durante l'orario di lavoro.

La narrazione, coinvolgente e accattivante, oscilla fra realtà e finzione, fra ricostruzioni e la durezza dei fatti oggettivi, con uno stile personale che fa innamorare il lettore, catturato dai vari personaggi, protagonisti di una particolare e precisa vicenda, ma che alla fine del romanzo risultano come inseriti in storie dal sapore universale, con annessi archetipi e tratti generali che si possono ritrovare in “La Rete a maglie larghe” proposti con grande abilità e sapiente utilizzo dei registri e degli ambienti.

Tipi umani e tratti geografici e sociali donano ulteriore spessore e qualità a quanto raccontato, con una giusta dose di suspense e di mistero che mai guasta.



Una grigia mattina di ottobre Janek Mattias Mitter si sveglia con un mal di testa lancinante per i postumi di una sbornia colossale. In cucina bottiglie vuote ovunque, in bagno il cadavere della giovane moglie Eva che galleggia nella vasca. Mitter non ha ricordi della notte appena trascorsa, tranne la certezza di non essere stato lui ad ucciderla. L’uomo chiama la polizia che, giunta sul luogo del delitto, lo arresta…

lunedì 20 agosto 2018

Citazioni Cinematografiche n.264

Sa, non mi interessano le risate facili, voglio suscitare delle reazioni profonde, voglio che la gente viva dell'esperienze emotive, che mi amino, che mi odino, che vadano via. È tutto grandioso. 
(Andy Kaufman/Jim Carrey in "Man on the Moon", di Miloš Forman - 1999)







sabato 18 agosto 2018

Dampyr #221 - Pianeta di Sangue



Un albo da cinefili e per cinefili questo “Pianeta di Sangue”, numero 221 della serie, dove il nostro Dampyr preferito deve vedersela con più di un vecchio nemico, per l'occasione di stanza a Parigi, fra la Belle époque ed i giorni nostri.

Il tutto parte dalla ricostruzione, fantasiosa e suggestiva, della scomparsa di Louis Le Prince, pioniere dell'arte cinematografica. La serie è solita poggiarsi su fatti reali per poi dare spazio alle sceneggiature ed alla fantasia dei suoi curatori e creatori. Non fa eccezione il bel lavoro compiuto da Giorgio Giusfredi, che pur creando un soggetto ed una sceneggiatura che da soli fanno la loro figura, riesce ad inserirsi nella continuity dampyriana, con vari richiami, collegamenti a personaggi già conosciuti, tra gli altri, negli albi 219 (Tutto per Amore), 218 (Danse Macabre), 193 (I Misteri di Cagliari). Tra l'altro mi ha fatto molto piacere rivedere la succuba Meridiana, sempre bellissima, e Ljuba che cresce e credo che presto potrebbe meritarsi nuovamente spazio nel corso delle pubblicazioni.


Ovviamente c'è molto altro in “Pianeta di Sangue”, con la componente cinefila a farla da padrone e da linea centrale, grazie al ricordo del già citato Le Prince e di Georges Méliès, regista, attore e illusionista francese, inventore del cinema fantastico e horror. 

 
Evidente e gradito l'omaggio al cinema di genere, con vari riferimenti ai “cattivi” ed ai mostri più noti (divertente trovarli e riconoscerli tutti, tra cui Alien ed una creatura di Myazaki), ma anche a Truffaut, che funge da legame tra l'ambientazione parigina e l'horror, tra gli stili registici e la biografia di Harlan e Ljuba.



Un elemento da me molto apprezzato della sceneggiatura di Giusfredi è la non comune abilità e cura nel tratteggiare anche dal punto di vista psicologico i suoi personaggi, più o meno protagonisti, che riescono a fungere non da mero contorno per i caratteri principali. Per cui fra Maestri della Notte, Dampyr e creature infernali, il lettore si gusta tutto il “cast”, compresi i critici cinematografici ed i blogger, figure molto concrete e vicine alla realtà, pur con la loro lievissima componente caricaturale.

 




















Il lavoro di Alessio Fortunato è sempre più apprezzabile, per la cura e la maestria nel disegnare e inchiostrare storie oscure, con abbondanza di creature mostruose, nebbie goticheggianti, sguardi truci e crudeli, posture di sfida e di battaglia nella cornice di decadenti ville aristocratiche. Il suo stile rende al meglio l'atmosfera e le ombre da lui create sembrano tanto tangibili da riuscire a circondare ed inghiottire non solo i personaggi sulla carta ma il lettore stesso (insomma mi è piaciuto il suo lavoro!).
Come purtroppo accade in altri albi della serie, l'unico difetto che posso trovare è che la storia risulta, ad una lettura maggiormente meditata e “obiettiva”, un tantino lievemente sbilanciata, dove l'ottima costruzione della trama, del contesto e delle ambientazioni porta ad un finale che risolve il tutto con modalità forse troppo rapide (rimane sempre il limite del numero di pagine degli albi Bonelli).

Sul treno Digione/Parigi, il 16 settembre 1890 scomparve il primo inventore della cinepresa a lente unica, Louis Le Prince. In che modo questo misterioso avvenimento ha a che fare con l'inventore del Cinema Fantastico e Horror, Georges Méliès?
Nella Parigi della Belle Époque nasce una pellicola maledetta di cui sopravvive ancor oggi una terribile copia che viene conservata da una società segreta di cinefili... Chi trama nell'ombra per uccidere Dampyr con "Pianeta di sangue", il film che rende folli?
(da sergiobonelli.it)





giovedì 16 agosto 2018

Da "O Capitano! Mio Capitano!" alla disillusione - L'Attimo che non c'era


L'attore statunitense Ethan Hawke è indubbiamente molto noto per la lunga serie di film e personaggi interpretati, per il suo impegno come regista ed anche come scrittore (Minimum Fax ha pubblicato alcuni suoi libri). Per chi ha circa 40 anni il buon Hawke è stato innanzitutto e forse un po' è ancora, soprattutto, il timido e represso Todd Anderson de “L'Attimo Fuggente”.
Proprio il film di Peter Weir, quello del “Carpe Diem”, di “O Capitano! Mio Capitano”, di Walt Whitman e del fiume Congo che “scava con la testa”.


Era il 1989 quando il film uscì, pochi mesi prima che l'Occidente si convincesse di aver vinto e si illudesse di aver fatto sì che la Libertà prevalesse contro il “Male”. L'Occidente libero e democratico si apprestava a godersi la caduta del Muro (come se ce ne fosse solo uno!) e gli adolescenti di buona parte del mondo, persino in Italia, si entusiasmavano per le vicende di quel gruppo di studenti negli Stati Uniti degli anni 50. Gli USA ancora per qualche tempo si sarebbero sentiti innocenti e dalla parte della ragione e del giusto, prima che si cominciasse ad ucciderne i presidenti e si ponessero le basi per le battaglie sui diritti civili.

Chi frequenta la Welton Academy in quel periodo (solo maschi, ricordate la famosa scena della telefonata da parte di Dio?), per volere dei genitori entra in una istituzione formativa che prevede e perpetua una rigida separazione delle classi, con la pretesa, o la scusa, di preparare la futura classe dirigente. Una istituzione che prende, forma e restituisce uomini destinati a divenire, nel loro intimo essere, “carne da macello”.
Contro questo sembrava stagliarsi la figura del professor John Keating, un Robin Williams che a fatica teneva a bada la sua natura istrionica non sempre centrata ed opportuna nei vari film interpretati.

Ebbene io ed i miei coetanei e compagni di scuola non potemmo non innamorarci di questo film e dei suoi protagonisti. Cosa c'era di più esaltante di un professore che ti fa urlare in aula, giocare a pallone durante l'ora di letteratura declamando versi, ti invita a “sentire” la poesia, ti sprona a goderti i tuoi giorni “succhiando il midollo della vita”, sempre senza “strozzarti con l'osso”? Come si poteva non invidiare gli studenti Todd Anderson, Neil Perry, Knox Overstreet, Charlie “Nuwanda” Dalton, Steven Meeks, Gerard Pitts e detestare il traditore Richard Cameron? Un gruppo tanto fortunato da accogliere gli insegnamenti del professore di lettere Keating e, abbandonati, strappati i testi classici, si ritrova in una grotta per leggere poesie, suonare male il sassofono, fumare sigarette e parlare di sesso, il tutto senza preoccuparsi della morale e del decoro. Si vedeva, si voleva vedere in ciò più che un richiamo, un vero impulso, quasi un ancestrale istinto alla libertà da una repressione sociale ma anche intima, privata, perfino auto-imposta.



Ora, a distanza di quasi 30 anni, mi viene da pensare che prendemmo una grossa cantonata. “L'Attimo Fuggente” ci sembrava un film sulla e per la libertà, e per tanti anni ancora io stesso mi sono illuso che avrei potuto “cogliere l'attimo”, persino con i miei tanti ed enormi limiti. Pensavo che non mi sarei fatto stringere da norme, consuetudini, tradizioni e cliché, sociali, privati ed emotivi. Invece, penso ora, quello era un film sull'illusione. Acutamente e dolorosamente un'opera sull'illusione della libertà. Dopo tre decenni di vita e di esperienze, di film e di libri letti, di studi ed esami, giungo ad affermare che “L'Attimo Fuggente” era un avvertimento, una predizione. Forse qualcuno dei miei amici e amori di allora continua a ritenerlo un invito, una spinta per smuovere gli spettatori, gli adolescenti incerti ed inerti ed indicare una via. Probabilmente può esserlo, ma la via che viene proposta è quella del martirio, tanto tragico e doloroso quanto inevitabile. 

 

I fatti: Neil Perry mette fine ai suoi giorni sparandosi in testa con la pistola del padre, che gli vuole impedire di recitare. Nuwanda viene espulso per aver picchiato il traditore Cameron, che invece riceve un encomio poiché si è più o meno consapevolmente piegato alle volontà e “desiderata” istituzionali. Gli altri sono costretti all'abiura nei confronti dell'amato professore, scelto come unico e solo colpevole della tragedia prima ricordata. Ben poco è servito che le pagine del manuale di letteratura, scritto da un immaginario professore emerito di nome Jonathan Evans Pritchard, siano state strappate via, giacché il tutto si risolve in un gesto puramente estemporaneo, senza vere, auspicabili conseguenze a lungo termine. 

 

Martirio quindi anche del professor Keating, il difensore del pensiero libero, che viene in un attimo rimosso dall’incarico. Avranno anche imparato a pensare con la loro testa, alcuni (pochi) studenti di Welton, ma la Società è più potente. Sempre sarà più potente. Anche i membri della setta dei poeti estinti finiranno dietro una teca di vetro, immortalati in una fotografia polverosa e muta. Anche loro sussurreranno “carpe diem” ai prossimi iscritti alla Welton, più giovani ma che ugualmente saranno inquadrati dietro lavori che non vogliono svolgere e ruoli sociali che gli sono stati calzati addosso da quando sono nati. E anche loro resteranno in realtà inascoltati.

Con durezza ed un po' di rammarico scrivo che il bel film che ci ha fatto sognare di vita, libertà, speranza e amore per noi stessi e gli altri risulta in realtà un film di sconfitta, di tristezza, di uomini morti e di repressione. È un film che dopo aver fieramente sorretto e profuso la speranza, giunge ad annientarla. La speranza che non può esistere in una società che si considera già libera e democratica, e se ne fa vanto in ogni luogo ed in occasione. 
 

Onore. Disciplina. Tradizione. Eccellenza. Queste le quattro parole che connotano la Welton Academy. Queste le quattro parole che si fanno vuote nel momento stesso in cui vengono pronunciate. Onore. Disciplina. Tradizione. Eccellenza. Eppure molti adolescenti di quegli anni, ancora senza social network e telefonino, scrivendo sul diario le frasi del film, i versi di Walt Whitman, nel mio caso anche indossandoli stampati su una maglietta, si sono a loro volta illusi di poter essere padroni della propria vita, liberi di fare ed essere ciò che sentivano dentro di loro, liberi anche di vivere i “vuoti” della propria anima per prenderne consapevolezza, senza fretta o imposizioni. Magari liberi ed in grado, se avessero voluto, di prendere parte a una rivoluzione o a qualcosa di simile, di poter offrire le proprie energie ed il proprio entusiasmo per far migliorare tutti quanti, essere veramente liberi e democratici, di poter essere parte della società in modo paritario, senza venirne schiacciati. 

 

Ma alla fine Todd Anderson sale su quel banco, e con lui la macchina da presa, e con lui tutti gli spettatori, come ultimo commiato. Un ultimo, disperato e velleitario gesto di ribellione che segna la fine della setta dei poeti estinti. Li estingue una volta per tutte. Quel “grazie, ragazzi” è il dolcissimo e perduto saluto di un uomo sconfitto a una generazione che come lui sarà sconfitta, se non accetterà i dogmi, le regole e le imposizioni di chi decide, pone e dispone. Di chi agisce liberandosi e schiacciando i diversi, i non inquadrati, chi denuncia l'assurdità, l'iniquità e l'ingiustizia di uno stile e di una visione.

In un college molto tradizionale nel New England degli anni Cinquanta, capita un professore simpatico e anticonformista, che esorta i ragazzi ad affrontare lo studio e la vita seguendo le proprie idee e non quelle dei nonni. Uno degli studenti, entrato in conflitto con i genitori, si suiciderà. La responsabilità viene rifilata al prof. Lui sarà cacciato, ma i suoi allievi non lo dimenticheranno. (da mymovies.it)

martedì 14 agosto 2018

Per coloro che sono desti



"Unico e comune è il mondo per coloro che sono desti, mentre nel sonno ciascuno si rinchiude in un mondo suo proprio e particolare".
(Eraclito)

 

lunedì 13 agosto 2018

Citazioni Cinematografiche n.263

Quando arrivò nel Nuovo Mondo, Cortés bruciò le sue navi... di conseguenza i suoi uomini erano ben motivati. 
(Cap. Marko Ramius/Sean Connery in "Caccia a Ottobre Rosso", di John McTiernan - 1990)





venerdì 10 agosto 2018

I risultati dell'antipolitica


Roberto Benigni, “Tu mi turbi” (1983).


"La pena che i buoni devono scontare per l'indifferenza alla cosa pubblica è quella di essere governati da uomini malvagi".
(Socrate)




 

mercoledì 8 agosto 2018

Dario Argento e Dylan Dog - Aspettativa e Riflessione


Accade, a volte, che l'aspettativa che si crea, che creiamo intorno ad un evento od una qualsivoglia manifestazione o accadimento che incroci le nostre vite o anche solo un nostro interesse o bisogno, finisca per essere delusa e ci si ritrovi a sentirsi meno appagati o soddisfatti di quanto riteniamo di averne diritto. Se però si osserva la questione da un'altra prospettiva, con più calma e maggiore onestà critica, con l'evento in sé ma anche nei nostri confronti, può capitare, di contro, che ci si renda consapevoli che proprio l'aspettativa che abbiamo creato si arroghi il potere di rovinarci il gusto di vivere e godere dell'oggetto in questione, sia esso materiale od immateriale.

È questa la riflessione che propongo in merito alla lettura dell'albo numero 383 di Dylan Dog, “Profondo Nero”.
Il fatto che sia il primo albo dell'Indagatore dell'Incubo in cui compaia la firma di colui che, in modo più o meno esplicito, è tra le fonti di ispirazione della serie fin dai suoi esordi 32 anni fa, e che il disegnatore chiamato a rappresentarne idee e suggestioni sia uno dei più importanti nel panorama nazionale ed internazionale, unito al tam-tam promozionale, ha creato l'aspettativa di cui sopra, condita da impazienza, fantasie, ansie e altro ancora.



Ad una prima lettura e seguendo pulsioni poco più che primordiali, l'albo si presenterebbe come una mezza delusione. Rimangono i disegni di Corrado Roi, la sceneggiatura che accanto al nome illustre di Stefano Piani riporta quello ancora più intrigante di Dario Argento, che in qualità di autore del soggetto merita anche di essere riportato sulla copertina argentata dell'albo.
Quindi, se si agisse di impulso, si digiterebbero sulla tastiera parole e frasi di rammarico e franca delusione, poiché “Profondo Nero” sembra una buona storia, con qualche ottimo momento e tavole molto belle, ma tutto potrebbe rientrare nella norma di una serie che negli ultimi tempi ha dimostrato di avere ancora qualcosa da dire, unendo lo spirito dei primi anni di pubblicazione con le esigenze del mercato e del pubblico. Ma c'era bisogno di “sparare” il nome di Dario Argento sulla copertina? Era imprescindibile creare tanta tensione e senso di attesa per questa uscita?
Le regole del già citato mercato forse lo richiedono ed al lettore rimane la possibilità di esserne lieto o addolorato, rimanerne indifferente o incazzarsi. Oppure si sceglie di (ri)leggere la storia come se niente fosse, godendo quanto di buono c'è e con serenità facendo qualche valutazione sulle scelte del disegnatore e degli sceneggiatori.


Allora rimane il senso di una buona occasione, se non proprio storica, quanto meno importante, straordinaria ed eccezionale, in quanto fuori dall'ordinario e vera eccezione, sia nell'ambito Bonelli che in quello più generale del fumetto italiano.

Corrado Roi con la sua arte ci mostra come sia possibile rievocare il pathos, la suspense e il brivido delle pellicole horror, senza far divenire una storia disegnata la copia di un film, bensì servendosi di sublimi inchiostrazioni, ombre sfumate e intense crea una ineguagliabile atmosfera, che sopperisce alle scelte in materia di sceneggiatura. Quest'ultima, sebbene basata sull'universo e le pratiche BDSM, ovvero Bondage & Disciplina, Dominazione & Sottomissione, Sadismo & Masochismo, ossia quelle pratiche relazionali e sessuali basate sul dolore fisico e che comportano un rapporto di dominazione/sottomissione, sceglie di concentrarsi ben poco sul corpo e le relative prove a cui risulterebbe sottoposto, virando sugli sguardi, i volti, gli occhi ed altri particolari d'atmosfera.
Non è un film horror, non è un racconto in cui si “avverta” il dolore, si “viva” la sofferenza e lo strazio. Cosa che sarebbe stata possibile, addirittura auspicabile nel momento in cui si arriva a scomodare uno dei più grandi del cinema horror, degnamente affiancato. Forse Dylan Dog non è la serie giusta, si potrebbe obiettare, ma il personaggio è conosciuto, la casa editrice è saldamente fra le prime in Europa per vendite, diffusione e qualità. Magari si poteva tentare.


Un buon albo, forse non epocale. Ottimo nella serie, più che tipicamente dylaniano, grande prova grafica e dal sicuro impatto. Una buona occasione ma che possiamo scegliere se permettere che ci lasci un vago senso di delusione, di occasione non completamente sfruttata.

Che cos’ha a che vedere la vicenda della bellissima Beatrix, scomparsa nel nulla all’improvviso, con l’antica tradizione dei whipping boy, ragazzi cresciuti accanto a coetanei di nobile casata per essere puniti al loro posto quando questi ultimi trasgredivano le regole? A Dylan Dog il compito di indagare, in una storia congegnata dal maestro dell’Horror Dario Argento. (da sergiobonelli.it)

lunedì 6 agosto 2018

Citazioni Cinematografiche n.262

È così che si combattono i mostri: lasci che ti vengano vicino, li guardi negli occhi e poi li colpisci. 
(Hank Deerfield/Tommy Lee Jones in "Nella Valle di Elah, di Paul Haggis - 2007")



venerdì 3 agosto 2018

Dampyr #220 - La Riscossa di Ah-Toy


Con grande piacere nel numero 220 di Dampyr ho rivisto l'affascinante quanto letale Ah-Toy, di cui i lettori avevano fatto la conoscenza nell'albo numero 215 “Chinatown”.
Il titolo “La Riscossa di Ah-Toy” stimola ed incuriosisce e posso dire di non essere rimasto deluso nel complesso, sebbene, come a volte capita all'interno della serie, lo scontro finale fra il villain ed Harlan si risolva, ancora una volta, in modo fin troppo sbrigativo. Il numero limitato di tavole di un singolo albo non aiuta, quindi si comprende come sia spesso difficile per sceneggiatore e disegnatore mantenere fino alla fine il giusto ritmo e la opportuna dose di dettagli e approfondimenti, in modo da far sviluppare al meglio trama, avvenimenti e particolari.



Tutto ciò in questo albo non pregiudica la resa finale, dal momento che la caratterizzazione di Ah-Toy, anche grazie alla sua precedente presenza nell'albo citato, è ottima ed efficace, in grado di interagire al meglio con il Dampyr, Tesla, Kurjak e gli altri protagonisti.


Il soggetto e sceneggiatura di Claudio Falco si rivela una ben riuscita unione e sinergia fra elementi horror, esotismo d'avventura e dettagli tipici dei gangster movies, utilizzando la cornice della Malesia che emoziona il lettore, che si gode i disegni di Vanessa Belardo. La disegnatrice regala tavole efficaci, solide e ricche di dettagli, in grado di valorizzare al meglio gli elementi non solo del singolo albo, ma della serie nel suo complesso, dall’atmosfera horror ai passaggi tipici dell'azione disegnata, dagli esterni marittimi ed urbani agli interni, con una buona capacità di rendere i dettagli e le atmosfere.


La Maestra delle Tenebre Ah-Toy è rimasta nell’ombra per secoli, ma le indagini di Jim Fajella, il poliziotto vampiro amico di Dampyr, hanno messo in luce i suoi loschi traffici, dalla Chinatown sulla West-Coast statunitense alle metropoli. La potente supervampira si prepara alla resa dei conti, in Malesia, contro Harlan Draka e un manipolo di guerrieri mercenari di T-Rex! (da sergiobonelli.it)



mercoledì 1 agosto 2018

Everest (2015)

"Perché è lì." È ciò che rispose un alpinista di nome George Leighmallory quando gli chiesero perché volesse scalare l'Everest. Il vecchio George era matto come un cavallo. Scalare l'Himalaya è la cosa più pericolosa che un uomo posa fare. Questa cima non è l'Everest ma non è comunque una passeggiata. Bisogna sempre avere una buona ragione per scalare una montagna. (Wolverine) 



Ho visto il film “Everest” su consiglio, un po' interessato e magari anche simpaticamente malizioso, di un mio collega. Per dirla in breve, mi ha deluso, anche se ammetto di averlo visto per intero con una buona dose di curiosità.

Non sono nuovo alla visione di film avventurosi, mi piacciono quelli sulla montagna, ma appunto per questo motivo ho molte riserve su “Everest”, proprio perché da un certo punto in avanti la vera assente è per l'appunto la Montagna. Ma come? Un film sull'Everest, sul tetto del mondo, su ciò che simboleggia, forse più di molto altro, l'avventura, la sfida, il coraggio, l'ardimento, a volte la superbia dell'uomo, il confronto fra l'umano e la Natura, ha come assente proprio quei 8.848 metri?

Secondo la mia visione e l'opinione che me ne sono fatto è proprio così. Proverò a scrivere perché. La prima parte sembra ben pensata e sviluppata dal regista islandese Baltasar Kormákur, con efficaci ed emozionanti movimenti di macchina, tanto ariosi e pieni di colore e pathos da far ben iniziare la visione e la narrazione di quella che si rivela una tragedia. Subito dopo, però, è tutto una lacrima, telefonate intercontinentali, scambi di parole d'amore e di pietismo stucchevole. Le ottime potenzialità date dall'ambientazione, suggestiva per qualunque spettatore, e dalla base di partenza definita dal saggio Aria sottile (Into Thin Air), scritto da Jon Krakauer su cui l'intera opera cinematografica si basa, vengono sprecate dalla deriva hollywoodiana, per la quale l'incontro/scontro fra uomo e natura e la fin troppo evidente suicida sfida con se stessi e col leviatano roccioso sono ridotte a poche battute da accademia. Prendono così il sopravvento i rapporti interpersonali, le componenti melodrammatiche e le dinamiche moglie/marito affidate alle di solito apprezzabili, ma qui poco più che belle figurine, Keira Knightley (piangente in ogni scena in cui sia presente) e Robin Wright. I personaggi femminili risultano fortemente penalizzati, persino se hai nel cast Emily Watson ed Elizabeth Debicki. Discorso analogo per i personaggi maschili. Risulta quasi una colpa difficilmente perdonabile sprecare il lusso di poter dirigere nello stesso film Josh Brolin, Jake “Donnie Darko” Gyllenhaal, Jason Clarke ed altri buoni attori per poi non permettere allo spettatore di “respirare” l'impresa, con la sua follia intrinseca, di “vivere” il dolore fisico e psicologico dei vari protagonisti, con le loro morti “telefonate” e la banalizzazione di un dramma che impedisce, inoltre, di godere appieno dell’unicità dei paesaggi.


La colonna sonora soffoca e rende fin troppo piccoli i personaggi, rende dell'Himalaya un'immagine vagamente oleografica, quasi da cartolina, superficiale a tal punto da non comunicare il silenzio, il vento, la tempesta. Elementi che cedono malinconicamente la scena agli ammiccamenti, alle facili emozioni, al melò, ad una narrazione didascalica che sottolinea ancora di più ed impietosamente il senso di un'occasione mancata.