Uno potrebbe anche stancarsi di andare in giro per
uffici e sale riunioni a sostenere colloqui di lavoro. No, non intendo dire
stancarsi di cercare lavoro. Purtroppo lavorare serve e quando manca il lavoro,
soprattutto manca uno stipendio o quantomeno un’entrata fissa (anche
modesta), ebbene bisogna comunque darsi da fare e cercare.
Paolo Panelli,
“Il conte Tacchia” (Sergio Corbucci, 1982).
Intendo proprio non poterne più di incontrare
selezionatori, responsabili del personale, direttori delle risorse umane,
impiegati che hanno il compito di effettuare colloqui con aspiranti lavoratori,
anche se magari qualche competenza per svolgere tale incarico non la possiedono
nemmeno se regalatagli a natale o trovata in un sacchetto di patatine (ma
poi ci sono ancora regali in quei sacchetti?).
“Qual è la sua più grande qualità?”, “qual è il suo
peggior difetto?”, “in cosa ritiene di essere competente”, “cosa, secondo lei,
deve ancora imparare?”, e così via. Sono queste alcune delle domande che un
candidato si sente molto spesso rivolgere, almeno nel primo colloquio, ma a
volte anche nel secondo o terzo. Il tizio che, armato di buona volontà e
sincera fiducia nelle proprie risorse, prova a rispondere, ritiene che sia
doveroso passare attraverso tale fase per procedere verso l’auspicata
assunzione. Così tutte le volte che gli viene fissato un incontro conoscitivo o
di selezione.
Ho studiato psicologia del lavoro, ho sostenuto esami
sulle metodologie e tecniche di intervista, somministrazione questionari,
compilazione test e via dicendo, perciò non mi definirei un completo profano
della materia. Quindi, almeno agli inizi della mia travagliata “carriera”
lavorativa, avevo una certa idea di cosa aspettarmi e di come comportarmi
durante un colloquio di lavoro.
No, no, non mi riferisco a quegli slogan idioti e a quelle
formule da imbonitore di piazza che campeggiano su manuali fai da te, ma anche
su testi di “autorevoli” guru della comunicazione e di maestri nel
miglioramento delle performance manageriali. Lungi da me il voler screditare
intere categorie professionali, poiché persone serie e competenti, persino
oneste e corrette, esistono anche tra gli psicologi, tra i selezionatori professionali
e i responsabili di risorse umane (nelle aziende dove è previsto il loro
reale contributo e non dove esiste solo un nome o una targhetta da affiggere su
una porta a rotazione).
Con il passare degli anni però, oltre a lavorare
abbastanza anche con qualche soddisfazione, mi sono accorto di quanto spesso in
verità a condurre tali momenti di conoscenza e selezione dei candidati, si
trovino personaggi delle più svariate nature e forme, alcuni magari anche
simpatici ma a volte, come dire, dei consapevoli idioti e consenzienti meri
filtri (pazienza) o addirittura degli arroganti e indisponenti tizi che
“si sono fatti da sé” e che fanno della propria esperienza l’unico metro e
valore per poter condurre delle selezioni, siano esse individuali o di gruppo (qui
si entra in diretto contatto con l’orrore!).
C’è ovviamente la concreta possibilità che abbia
semplicemente avuto molta sfortuna, o che sia io ad essere un idiota oppure un
arrogante, ma, per il buon prosieguo di questo scritto (e la parziale salvezza
di quel poco di autostima rimastami), diamo per buona la prima eventualità.
Ebbene non vado oltre su questo tema e mi limito ad esporre mie esperienze,
senza per l’appunto fare “di tutta l’erba un fascio” (che di fasci purtroppo
ce ne sono in giro fin troppi ancora!). Le Agenzie per il lavoro, nate di
fatto “grazie” al pacchetto Treu, dovrebbero svolgere tutti i compiti per loro
previsti anche nell’interesse del lavoratore, diciamo dell’aspirante tale, ma
poi sono orientate verso quelli che sono i loro veri clienti, ovvero le aziende
che gli commissionano il lavoro. Le conseguenze non sono così difficili da
immaginare!
I Centri per l’Impiego rischiano di essere
autoreferenziali o quantomeno di non riuscire ad offrire un concreto servizio
ai cittadini, con la conseguenza di alimentare in questi frustrazione e
sfiducia nell’Amministrazione.
Fabrizio Bentivoglio e
Silvio Orlando,
“La scuola” (Daniele Luchetti, 1995).
Passo ora al vero obiettivo di queste righe. Ovvero
sostenere come in questi anni, “di crisi” ci dicono, a pochi datori di lavoro,
a poche aziende, nei fatti, interessa veramente svolgere un’accurata e seria
selezione del personale, affidarsi a personale esperto e preparato nella
procedura di ricerca e individuazione di candidati idonei a svolgere
determinate mansioni. Forse le più serie sì, mi si avverte, me lo auguro, ma
poi nel mio quotidiano io ho a che fare con aziende e datori di lavoro presenti
sul territorio in cui vivo e lavoro, perciò su questo baso le mie riflessioni.
Ora, con la scusa della “crisi”, c’è parecchia gente che cerca lavoro, perché
lo ha perso, non l’ha ancora trovato, è stata costretta a cambiarlo, ad
abbassare le proprie aspettative e così via, perciò i selezionatori, o presunti
tali, si trovano fin troppi candidati di fronte. La conseguenza, nefasta, è che
anche se non individuano soggetti idonei oggi, sicuramente, ritengono, lo
potranno fare domani e la loro soglia di attenzione e di cura tende ad
abbassarsi. Ancora peggiore è lo scenario in cui a condurre il colloquio di
lavoro è il titolare stesso che, a torto o a ragione, ritiene di poter svolgere
perfettamente tale compito, perché in fondo l’azienda è sua, sa bene lui cosa
cerca o (attenzione!) cosa “gli serve”, è convinto di aver sufficiente
esperienza per capire chi ha di fronte e via con le frasi ad effetto.
Il mantra “con questa
crisi” è buono per tutto: per far accettare stipendi bassi, contratti
vergognosi, rinuncia a diritti, ridimensionamento delle aspettative,
arretramenti dell’inquadramento e altre amenità del genere. Peccato che la
crisi, però, in certi settori e per certe aziende, riguardi solo i dipendenti
di più basso livello. I cosiddetti “quadri”, i dirigenti ed gli imprenditori
datori di lavoro (ed elargitori di infimi stipendi) continuano, per
esempio, ad acquistare auto di lusso, andare in vacanza in luoghi alla moda,
scaricare spese sul conto della società, mantenere stili di vita “di un certo
livello” e magari anche più di una ex-moglie.
La crisi per loro è un alleato! Orbene il livore ed il
risentimento personale è più che evidente in queste righe e non ho certo
intenzione di nasconderlo. Questo offusca e pregiudica la lucidità di cui ci
sarebbe bisogno, ma non sto certo esponendo una tesi, perciò continuo su questo
solco.
Enzo Provenzano e
Pietro Sermonti,
“Smetto quando voglio” (Sydney Sibilia, 2014).
Può capitare di avere a che fare con personaggi che, in
tempi propizi, hanno fondato una società, con lo statuto giuridico a loro più
vantaggioso e secondo le possibilità che la legislazione ha loro regalato, che
gli ha permesso di arricchirsi e crearsi una situazione di oggettivo
privilegio. Il concetto dell’uomo di successo, artefice del proprio destino, è
suggestivo ma anche foriero di sventure per chi se ne lascia abbagliare, ma
soprattutto entra in crisi quando si scopre lo sporco sotto la superficie di
splendore e fantastica riuscita di un “genio imprenditoriale”. Può capitare di
avere a che fare con l’arroganza e la presunzione di chi, in modo furbo ed al
limite della legalità, si è fatto un sacco di soldi cavalcando una qualche onda
favorevole e poi rimanga convinto di essere un imprenditore capace e sagace,
quando i fatti dimostrerebbero esclusivamente una grande fortuna arrivatagli
grazie a competenza, capacità, merito ascrivibili ad altri, suoi collaboratori (quando
va bene), suoi protettori (va un po’ peggio) o suoi corrotti e
corruttibili sodali (come va male!).
Questi loschi personaggi, inoltre, nella loro protervia e
disgustosa alta concezione di sé, non si vergognano di far ricadere le
conseguenze di una qualche crisi sui loro dipendenti, su chi, magari
seriamente, lavora per loro ed ha contribuito ad arricchirli e li mantiene nei
loro agi. Sono capaci di dichiarare che i “tempi sono duri”, “bisogna stringere
i denti” ed altre frasi di rito. Sono disposti a chiedere sacrifici e aiuti
economici a chi vive di stipendi a tre cifre. Non temono di dichiarare di non
avere denaro a portata di mano, la famosa “liquidità” delle imprese, riuscendo
anche a farsi finanziare da qualche gruppo bancario, a sua volta salvato da
interventi da parte di terzi (e non solo da parte dello Stato!). I
dipendenti, i salariati, devono rinunciare a parte di stipendio, a intere
mensilità per il bene dell’azienda, ma i titolari, i capaci imprenditori si
guardano bene dal privarsi anche del minimo benefit, tenendosi stretti i propri
privilegi e gli “stipendi” a cinque cifre.
Per cui: “qual è il suo maggior pregio?”, “la capacità
di resistere alla tentazione di spaccarle la bocca!”; “qual è il suo
peggior difetto?”, “essere disoccupato!”; “qual è la sua più grande
aspirazione?”, “essere pagato per sparare cazzate come fa lei!”.
Oppure, tentando di non essere cacciato e magari
ritrovarsi con un lavoro:
-
Il mio maggior pregio è riuscire ad essere cordiale anche
con le teste di cazzo, come può notare in questo momento.
-
In merito ai difetti preferisco concentrarmi sulle
mie qualità e sulle cose che so fare, per cui ritengo di non averne di così
gravi da dovermi ridurre a fare il selezionatore di personale.
-
La mia più grande aspirazione è divenire immortale,
e poi… morire. Le piace il Cinema di Truffaut? No? Mi dispiace, anzi no, meglio
così, preferisco non avere nulla in comune con lei!
Riflettendoci, forse neanche così va bene. Pazienza!
“Santa Maradona” (Marco
Ponti, 2001)