giovedì 8 gennaio 2015

La Grande Guerra # 7


L’Italia era legata all’Austria-Ungheria ed alla Germania da un’alleanza a carattere difensivo, detta Triplice Alleanza. Proprio in virtù della natura di tale alleanza, al momento della dichiarazione di guerra austriaca alla Serbia, nessun obbligo di intervento poteva essere imposto al Regno d’Italia, il quale aveva, legittimamente, proclamato la propria neutralità.

La maggioranza del parlamento e del Paese era a favore del non intervento.

Neutralisti erano i socialisti, che ritenevano la guerra fosse voluta dalle grandi potenze europee imperialiste e capitaliste, sebbene il loro schieramento fosse isolato e la loro posizione indebolita dall’interventismo dei socialisti europei. Contrari alla guerra erano i cattolici, che seguivano l'orientamento dato dal pontefice, schieratosi contro la guerra, anche se rimaneva ancora il contrasto tra l'obbligato neutralismo dettato dalla Chiesa e la lealtà allo Stato di cui facevano parte. Anche i giolittiani erano neutralisti, ritenendo che l'Italia non fosse preparata a sostenere una guerra che sarebbe durata molto tempo e richiesto numerose risorse economiche e militari. Giovanni Giolitti non si limitò solamente a manifestare la sua posizione sulla situazione italiana, ma formulò un'analisi sulla situazione internazionale. Giolitti riteneva che l'Italia avrebbe potuto ottenere numerosi vantaggi senza la guerra, indicando l'opportunità di contrattare la neutralità come se fosse una vittoria.

Era comunque presente un’attiva minoranza interventista, portatrice di ideali ed interessi a dir poco vari e compositi.

Esistevano i cosiddetti interventisti democratici, i quali volevano la guerra contro gli Asburgo d’Austria per completare l’unità nazionale.

C’erano i nazionalisti interventisti, che dalla “sicura” vittoria si attendevano la nascita di un impero italiano, con i Savoia casa regnante.

Abbastanza vicini a tali posizioni vi erano gli ambienti della grande industria, interessati alle forniture che lo Stato avrebbe richiesto in caso di guerra, a cui si aggiungevano studenti universitari ed intellettuali. Questi ultimi erano poco numerosi, ma influenti: il futurista Filippo Tommaso Marinetti, il poeta Gabriele D’Annunzio e Benito Mussolini, che, tra l’altro, per il suo interventismo era stato espulso dal PSI e aveva fondato il quotidiano Il Popolo d’Italia. Infine, favorevoli alla guerra erano anche quei liberali che non si riconoscevano in Giovanni Giolitti e che avevano un influente appoggio nel Corriere della Sera.
 














Comunque, sempre di minoranza si trattava, per di più divisa tra coloro che auspicavano un intervento contro l’Austria e quanti che lo volevano a favore. Tuttavia, questa minoranza seppe trascinare tutto il Paese alla guerra. Vennero organizzate una serie di dimostrazioni di piazza, le Radiose Giornate di Maggio, che il re Vittorio Emanuele III finse di accettare come manifestazione della volontà interventista della nazione.



Il 20 maggio 1915 il parlamento italiano votò i pieni poteri al governo in caso di guerra. Il 23 l’Italia indirizzò un ultimatum all’Austria ed il 24 maggio 1915 entrò ufficialmente in guerra con essa. Per la dichiarazione di guerra alla Germania si dovette attendere il 1916.

Ad “illustrare” i due principali schieramenti, favorevoli e contrari alla guerra, chiamo in causa due poeti italiani, combattenti.

SUL KOBILEK

Sul fianco biondo del Kobilek
Vicino a Bavterca,
Scoppian gli shrapnel a mazzi
Sulla nostra testa.
Le lor nuvolette di fumo
Bianche, color di rosa, nere
Ondeggiano nel nuovo cielo d'Italia
Come deliziose bandiere.
Nei boschi intorno di freschi nocciuoli
La mitragliatrice canta,
Le pallottole che sfiorano la nostra guancia
Hanno il suono di un bacio lungo e fine che voli.
Se non fosse il barbaro ondante fetore
Di queste carogne nemiche,
Si potrebbe in questa trincea che si spappola al sole
Accender sigarette e pipe;
E tranquillamente aspettare,
Soldati gli uni agli altri più che fratelli,
La morte; che forse non ci oserebbe toccare,
Tanto siamo giovani e belli.

Ardengo Soffici
da “Kobilek - Giornale di battaglia”, 1918


La poesia trasuda futurismo, l’uso delle immagini è tipico della corrente, inneggia alla guerra come “sola igiene del mondo”, la fa addirittura sembrare bella tanto da arrivare a inneggiare alla morte e a sfidarla in nome di una splendida gioventù.


VOCE DI VEDETTA MORTA


C'è un corpo in poltiglia
con crespe di faccia , affiorante
sul lezzo dell'aria sbranata.
Frode la terra.
Forsennato non piango:
Affar di chi può e del fango.
Però se ritorni
tu uomo, di guerra
a chi ignora non dire;
non dire la cosa, ove l'uomo
e la vita s'intendono ancora.
Ma afferra la donna
una notte dopo un gorgo di baci,
se tornare potrai;
soffiale che nulla nel mondo
redimerà ciò ch'è perso
di noi, i putrefatti di qui;
stringile il cuore a strozzarla:
e se t'ama, lo capirai nella vita
più tardi, o giammai.


Clemente Rebora
da “Poesie sparse”


In questo caso la poesia esprime umanità attraverso la pietà e la compassione per quella sentinella che giace bocconi nel fango, colpita da un proiettile o da un tiro d’artiglieria. Immediato pensare anche ad Ungaretti in “Veglia”, Rebora rimane attaccato alla vita, non invoca la morte come Soffici, ma l’amore. Attraverso le parole che la vedetta non può più pronunciare, il poeta milanese pensa al futuro, alla donna che un giorno potrà amare, dopo aver attraversato l’inferno.


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