L’Italia era legata all’Austria-Ungheria ed alla Germania
da un’alleanza a carattere difensivo, detta Triplice Alleanza. Proprio
in virtù della natura di tale alleanza, al momento della dichiarazione di
guerra austriaca alla Serbia, nessun obbligo di intervento poteva essere
imposto al Regno d’Italia, il quale aveva, legittimamente, proclamato la
propria neutralità.
La maggioranza del parlamento e del Paese era a favore
del non intervento.
Neutralisti
erano i socialisti, che ritenevano la guerra fosse voluta dalle
grandi potenze europee imperialiste e capitaliste, sebbene il loro schieramento
fosse isolato e la loro posizione indebolita dall’interventismo dei socialisti
europei. Contrari alla guerra erano i cattolici, che seguivano
l'orientamento dato dal pontefice, schieratosi contro la guerra, anche se
rimaneva ancora il contrasto tra l'obbligato neutralismo dettato dalla Chiesa e
la lealtà allo Stato di cui facevano parte. Anche i giolittiani erano
neutralisti, ritenendo che l'Italia non fosse preparata a sostenere una guerra
che sarebbe durata molto tempo e richiesto numerose risorse economiche e
militari. Giovanni Giolitti non si limitò solamente a manifestare la sua
posizione sulla situazione italiana, ma formulò un'analisi sulla situazione
internazionale. Giolitti riteneva che l'Italia avrebbe potuto ottenere numerosi
vantaggi senza la guerra, indicando l'opportunità di contrattare la neutralità
come se fosse una vittoria.
Era comunque presente un’attiva minoranza
interventista, portatrice di ideali ed interessi a dir poco vari e compositi.
Esistevano i cosiddetti interventisti democratici,
i quali volevano la guerra contro gli Asburgo d’Austria per completare l’unità
nazionale.
C’erano i nazionalisti interventisti, che
dalla “sicura” vittoria si attendevano la nascita di un impero italiano,
con i Savoia casa regnante.
Abbastanza vicini a tali posizioni vi erano gli ambienti
della grande industria, interessati alle forniture che lo Stato avrebbe
richiesto in caso di guerra, a cui si aggiungevano studenti universitari ed
intellettuali. Questi ultimi erano poco numerosi, ma influenti: il futurista Filippo
Tommaso Marinetti, il poeta Gabriele D’Annunzio e Benito
Mussolini, che, tra l’altro, per il suo interventismo era stato espulso dal
PSI e aveva fondato il quotidiano Il Popolo d’Italia. Infine,
favorevoli alla guerra erano anche quei liberali che non si
riconoscevano in Giovanni Giolitti e che avevano un influente appoggio nel Corriere
della Sera.
Il 20 maggio 1915 il parlamento italiano votò i
pieni poteri al governo in caso di guerra. Il 23 l’Italia indirizzò un ultimatum
all’Austria ed il 24 maggio 1915 entrò ufficialmente in guerra con
essa. Per la dichiarazione di guerra alla Germania si dovette attendere il
1916.
Ad “illustrare” i due principali schieramenti, favorevoli
e contrari alla guerra, chiamo in causa due poeti italiani, combattenti.
SUL
KOBILEK
Sul fianco biondo del Kobilek
Vicino a Bavterca,
Scoppian gli shrapnel a mazzi
Sulla nostra testa.
Le lor nuvolette di fumo
Bianche, color di rosa, nere
Ondeggiano nel nuovo cielo d'Italia
Come deliziose bandiere.
Nei boschi intorno di freschi nocciuoli
La mitragliatrice canta,
Le pallottole che sfiorano la nostra guancia
Hanno il suono di un bacio lungo e fine che voli.
Se non fosse il barbaro ondante fetore
Di queste carogne nemiche,
Si potrebbe in questa trincea che si spappola al sole
Accender sigarette e pipe;
E tranquillamente aspettare,
Soldati gli uni agli altri più che fratelli,
La morte; che forse non ci oserebbe toccare,
Tanto siamo giovani e belli.
Ardengo Soffici
da “Kobilek - Giornale di battaglia”, 1918
La poesia trasuda futurismo, l’uso delle immagini è tipico
della corrente, inneggia alla guerra come “sola igiene del mondo”, la fa
addirittura sembrare bella tanto da arrivare a inneggiare alla morte e a
sfidarla in nome di una splendida gioventù.
VOCE DI VEDETTA MORTA
C'è un corpo in poltiglia
con crespe di faccia , affiorante
sul lezzo dell'aria sbranata.
Frode la terra.
Forsennato non piango:
Affar di chi può e del fango.
Però se ritorni
tu uomo, di guerra
a chi ignora non dire;
non dire la cosa, ove l'uomo
e la vita s'intendono ancora.
Ma afferra la donna
una notte dopo un gorgo di baci,
se tornare potrai;
soffiale che nulla nel mondo
redimerà ciò ch'è perso
di noi, i putrefatti di qui;
stringile il cuore a strozzarla:
e se t'ama, lo capirai nella vita
più tardi, o giammai.
Clemente
Rebora
da “Poesie sparse”
In questo caso la poesia esprime umanità attraverso la pietà e la
compassione per quella sentinella che giace bocconi nel fango, colpita da un
proiettile o da un tiro d’artiglieria. Immediato pensare anche ad Ungaretti in
“Veglia”, Rebora rimane attaccato alla vita, non invoca la morte come Soffici,
ma l’amore. Attraverso le parole che la vedetta non può più pronunciare, il
poeta milanese pensa al futuro, alla donna che un giorno potrà amare, dopo aver
attraversato l’inferno.
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