Terzo
appuntamento con i film di guerra che ho scelto!
Si
arriva al Vietnam…
GUERRA DEL VIETNAM
Una
ferita rimasta aperta per anni nella cuore della cultura e del patriottismo statunitense.
La disfatta in sud-est asiatico ha rappresentato per anni l’occasione di
portare al cinema l’assurdità di tale conflitto e della guerra in generale,
momento di annientamento di qualsiasi umanità. I film sul Vietnam sono di due tipi: quelli prettamente bellici, con azioni di
guerra in mezzo all’inospitale giungla,
e quelli più di denuncia che oltre alla battaglia, o anche tralasciandola,
mostrano il ritorno dei soldati e il
lascito della guerra. Dopo il
Vietnam cambia, infatti, la visione della guerra sul grande schermo, luogo non
più adibito tanto alla rappresentazione realista dei combattimenti, ma quanto
alla narrazione delle vicende umane e delle reazioni dei protagonisti. Io ho
scelto quest’ultima via, ed ulteriori elementi di mio gusto, con quello che di
seguito propongo.
Urla del silenzio (1984) di Roland Joffé.
Cruda
e toccante rievocazione dei giorni che vissero le popolazioni della Cambogia
dopo l'evacuazione degli statunitensi del 1975. Film eccezionale per il
coraggio dei temi trattati con intelligenza e sensibilità, la maestria tecnica e
recitativa che non indulgono su sentimentalismi ma espongono lucidamente la
crudeltà e gli opportunismi di quegli anni.
Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola.
Cosa
si può aggiungere a quanto già scritto e detto, a proposito di una delle opere
più imponenti che il cinema abbia mai prodotto? Da tutti i punti di vista un
capolavoro, inciso nell’immaginario collettivo
(musiche, immagini, riprese, citazioni) e che viene tuttora preso come metro di
giudizio per il genere bellico. Preziosa, anche se notevolmente più lunga, la
visione della versione Redux.
Il cacciatore (1978) di Michael Cimino.
Un
film in tre parti, prima/durante e dopo la guerra e le conseguenze su chi è
partito ed è tornato a casa, su chi non è tornato e su chi è rimasto ad
aspettare. Non si racconta la guerra, esperienza incomprensibile per chi non
l’ha vissuta e incomunicabile per chi ha combattuto, ma ci viene proposto il
ritratto di una sconfitta collettiva, e al tempo stesso la rappresentazione non
ideologica del vitalismo di un popolo e di una cultura, quella statunitense
della provincia composta da immigrati di seconda generazione. Un film che
parlava all’opinione pubblica interna e che trasmette ancora un messaggio forte
e diretto.
Full
Metal Jacket (1987) di Stanley Kubrick.
Divisa
in due parti (addestramento e fronte), l’opera di Kubrick va al di là del
Vietnam, presentato in forma nettamente diversa dall’iconografia classica
(città invece della giungla), per prendere a bersaglio l'atrocità del secolo,
l’aspetto sporco della Storia. Prosa asciutta, quasi sciatta, di una secchezza
fertile, tagliente umor nero sulla violenza dell'istituzione militare e sulla
disumanizzazione di chi ne viene a contatto.
Rambo (1982) di Ted Kotcheff.
Dramma
del ritorno, dell’impossibilità di una vita normale. La guerra è evocata,
ricordata attraverso il dolore e l’incredibile vicenda di un reduce. Un film
d’azione che non è solo questo, un uomo solo contro tutti che, suo malgrado, si
fa portatore di un messaggio di denuncia contro l’ostilità ed i pregiudizi di
chi non capisce le ferite intime e psicologiche di chi ha vissuto l’orrore,
alfiere di un chiaro senso dell’onore e della lealtà. Probabilmente il suo
iniziale successo è dovuto ad altro, ma a distanza di tempo rimane la
sensazione di un lavoro che propone significati più profondi ed importanti.
Martin Sheen in Apocalypse Now |
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