Grazie ad una rassegna in corso presso uno storico
cinema di provincia, a breve distanza da dove abito, ho “recuperato” la visione
dell’ultimo film di Pedro Almodóvar, “Julieta”.
Il regista spagnolo, in coincidenza con la maturità,
probabilmente ha inteso cambiare decisamente registro, non tanto lo stile,
optando per un ritmo ed uno sguardo meno vivace, più lento e maggiormente
distaccato, anche se il distacco infine risulta solo parziale.
Il soggetto è ispirato da tre racconti di Alice
Munro, scrittrice canadese che ha ricevuto il premio Nobel per la
Letteratura nel 2013.
L’interesse per l’universo femminile, che
tanto ha contraddistinto la produzione di Almodóvar, è sempre presente e vivo,
elegante e a tratti seducente, ma più freddo, con il rischio di rappresentare
qualcosa di non pienamente risolto, ovvero la vicenda umana di una donna che da
anni, inspiegabilmente, non vede e non ha alcun contatto con la giovane figlia,
in un film che a sua volta sembra non risolversi, non svolgersi e non partire
definitivamente.
Più quadri e immagini, sapientemente girati e con una fotografia
molto curata, che presentano, più che rappresentare ed illustrare.
In sé non sarebbe un limite, potrebbe anzi risultare una
scelta vincente, considerando anche che la musica proposta per
accompagnare le immagini svolge bene il proprio ruolo, ma le attrici scelte per
il ruolo di protagonista non convincono e con la loro prova, di fatto, non solo
non aggiungono, ma in alcuni momenti addirittura depotenziano quanto viene
rappresentato. Esattamente il contrario di quanto accaduto in buona parte degli
altri film girati da Almodóvar.
Apprezzabile che la stessa donna, interpretata
da Adriana Ugarte in età giovanile e da Emma Suarèz nella maturità, in qualche
modo illustri il passaggio dal cinema “da movida” della prima produzione e gli
ultimi anni cinematografici di don Pedro.
I riferimenti cinefili abbondano e probabilmente solo in
un film sostanzialmente sobrio e rigoroso, con tratti crepuscolari come questo
avrebbero trovato degno ruolo, ma rimane una certa perplessità, dovuta al
desiderio dello spettatore di farsi coinvolgere.
Rimane l’abilità del regista, il suo sguardo lucido ed
intenso, ma quello che sarebbe potuto essere un thriller, o un dramma, oppure
una efficace rappresentazione del dolore, rimane troppo sospeso e non
entusiasma.
Ci sono scene dove lo spettatore rimane colpito ed
affascinato dalle scelte registiche (una intrigante ellissi temporale agita
grazie ad un asciugamano), ma sono in numero inferiore rispetto a quelle in
cui, viceversa, prende il sopravvento un pizzico di delusione, di rammarico,
per ciò che sarebbe potuto essere e non è stato.
La possibilità che fra qualche anno “Julieta” possa
essere rivisto e rivalutato all’interno della produzione dello spagnolo rimane,
anche perché non posso escludere che trovarsi di fronte ad un film solo in
parte “almodovariano” abbia limitato la mia capacità di giudizio.