domenica 28 dicembre 2025

Giallo, Noir & Thriller/98

 

Titolo: La donna che morì due volte

Autore: Leif GW Persson

Traduttore: Katia De Marco

Editore: Marsilio – 2018


Il titolo, vi sfido, non può che far venire in mente il quasi omonimo film di Alfred Hitchcock. Ma non siamo a San Francisco, Kim Novak e James Stewart non ci sono e la componente sentimentale manca. Sono ben presenti, invece, l'elemento di mistero, il gusto dell'indagine ed una dose thriller che si avvalgono anche di una componente più leggera, quasi divertente, data dal protagonista.

Proviamo a proporre qualcosa di simile ad una vera recensione, nello stile da semplice e divertito lettore incuriosito.

Potrei cominciare dal dire che “La donna che morì due volte” si fonda, ovviamente, su un paradosso che incrina una delle certezze più elementari dell’esistenza: l’idea che la morte sia un evento unico e irripetibile. Un assunto che pare indiscutibile e che tuttavia viene messo in crisi da una vicenda che, anche in questo caso, evoca atmosfere hitchcockiane, sebbene qui il gioco si svolga sul terreno della morte e non della vita.

Anche senza abbandonare questa certezza, ci si trova comunque di fronte al fatto che una giovane donna orientale sembra aver sfidato l’impossibile: è morta due volte. Di almento una di queste morti si ha la certezza, si conosce la mano assassina, fredda e metodica, capace di occultare il cadavere per anni. Tutto ciò contraddice la logica e proprio per questo cattura immediatamente il lettore, trascinandolo in un enigma che non ammette risposte semplici.

Di fronte a un simile rompicapo, sembra inevitabile arrendersi, soccombere alla curiosità, al bisogno quasi compulsivo di formulare congetture, di inseguire piste e sospetti. Le pagine scorrono rapide, sostenute da una costruzione narrativa solida e calibrata, mentre il tema del “doppio”, tanto caro al già ricordato cinema di Hitchcock, riaffiora e stringe il lettore, costringe la sua immaginazione o quantomeno la sua curiosità, in una morsa sottile e inquietante.

A condividere questo percorso non è solo il lettore, ma anche una squadra di investigatori acuti e determinati che, nel romanzo “La donna che morì due volte, si muove a ritroso nel tempo per ricostruire una verità destinata a esplodere come un fulmine improvviso. Quando arriva, infatti, la rivelazione finale coglie di sorpresa: un autentico colpo di scena che testimonia l’abilità di Leif GW Persson nel governare la tensione e nel condurre chi legge esattamente dove vuole, fino all’ultima pagina.

Figura centrale e indiscussa è Evert Bäckström, poliziotto fuori schema e antieroe per eccellenza. Personaggio volutamente sgradevole al primo impatto, Bäckström non fa nulla per conquistare simpatia: ostenta senza filtri i propri vizi, dall’alcol alla pigrizia, dal cinismo al disincanto morale per condire il tutto con la misoginia, passando per una sicurezza di sé che rasenta l’arroganza. È corrotto, indolente, spavaldo, eppure dotato di un intuito formidabile.

Proprio questo, però, dopo qualche pagina (o qualche romanzo, come nel mio caso) lo rende irresistibile e divertente. Bäckström non intende indossare maschere rassicuranti né si piega a modelli consolatori, non chiede di essere amato, finendo forse per questo per esserlo. In un thriller, dopotutto, l’empatia può essere secondaria, se vi è intuizione, fantasia, capacità di vedere ciò che gli altri non vedono e tutto questo lo si fa valere. E di fiuto investigativo, Bäckström ne possiede in abbondanza.

Anche il resto del cast non è da meno. I personaggi sono vividi, scolpiti con tale cura da sembrare reali, quasi invadenti, come vicini di casa eccentrici di cui si percepiscono odori, voci e manie. A fare da sfondo, una Svezia lontana dall’immagine patinata e irreprensibile, una terra che lascia intravedere crepe e zone d’ombra, immersa in una natura aspra e silenziosa, evocata più per ciò che nasconde che per ciò che mostra.

L’unico limite del romanzo risiede, forse, nel ritmo, che in alcuni passaggi rallenta e rischia di appesantire la narrazione. Talvolta la trama tende a dilungarsi oltre il necessario, suggerendo che una maggiore asciuttezza avrebbe giovato, rendendo la lettura ancora più fluida. Si tratta, però, di un appunto da incontentabile brontolone, di un difetto talmente marginale da non intaccare il piacere di leggere e godere di un mistero avvincente, di protagonisti efficaci che stimolano curiosità e sanno coinvolgere pagina dopo pagina.


Un pomeriggio di luglio il piccolo Edvin, dieci anni, suona alla porta del commissario Bäckström, suo vicino di casa, nonché suo idolo. Durante un’escursione in solitaria, invece dei funghi che stava cercando, sull’isola disabitata dove è stato depositato dal suo capo scout ha trovato un teschio umano con un foro di pallottola ben visibile sulla tempia. Per l’investigatore più furbo e cialtrone dell’intero corpo di polizia svedese si tratta di un importante ritrovamento dai chiari risvolti polizieschi: non resta che mettere in moto la sua fidata squadra per far luce su quello che ha tutta l’aria di essere un caso di omicidio. I primi riscontri riservano però una sorpresa: la vittima in questione risulta morta in Thailandia dodici anni prima, nello tsunami del dicembre 2004, il funerale celebrato, le ceneri disperse. A questo punto, la domanda diventa di ordine quasi filosofico: si può morire due volte?(da marsilioeditori.it)





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