Titolo:
L’Assassino che è in me
Autore:
Jim Thompson
Traduttore: Anna Martini
Editore:
Fanucci - 2005
È sufficiente scrivere
un noir in prima persona per
coinvolgere il lettore e fargli perdere punti di riferimento e certezze? Sicuramente
no, ma cosa accade quando riesci, consapevolmente, a descrivere la parabola criminale di un uomo, a far
compiere a chi legge un viaggio nella sua mente e a fargli vivere estreme
pulsioni? Cosa raggiungi quando il “cattivo”
è il vice-sceriffo di una cittadina texana, ovvero quello che dovrebbe
garantire ordine, legalità e giustizia, mentre è un personaggio lucidamente
violento come pochi altri prima e “modello” per future imprese letterarie?
Sei
di fronte ad un capolavoro!
L’autore è Jim Thompson, che in questo romanzo,
come in altri successivamente letti, esprime un genuino nichilismo, solo appena
sfumato da una vena satirica, da un umorismo nero, sagace e a tratti
spiazzante.
Ti viene da immedesimarti
in questo ragazzo, forse un po’ strano, ma di cui sei portato a fidarti. Vorresti
quasi fare il tifo per lui, magari garantirgli impunità ed una via di fuga. Insomma
ti viene da sentirti suo amico, anche se, in fondo, sai che sarebbe pronto a
far fuori anche te, se pensasse che sia necessario.
"Cercai
di spingerla via. Dovevo uscire di lì. Sapevo cosa sarebbe successo se non
fossi uscito, e sapevo di non potermi permettere che accadesse. Avrei potuto
ucciderla. Avrei potuto far tornare la
malattia. E anche se non l'avessi fatto e non fosse successo, per me
sarebbe finita. Lei avrebbe parlato. Avrebbe strillato fino a sgolarsi. E la
gente avrebbe cominciato a pensare, a pensare e a chiedersi di quella
volta...".
Precisione
ed asciutta immediatezza nel
presentare e descrivere la follia del protagonista, un approfondimento di
stampo clinico rispetto alla psicosi del vice-sceriffo. Un uomo, di fatto
frustrato (come molti personaggi di
Thompson), alle prese con ambizioni e desideri non alla sua portata.
“Se
il buon Dio ha commesso un errore, con noi esseri umani, è quello di farci
desiderare di vivere anche quando abbiamo ben poche scuse per farlo...”.
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