mercoledì 1 agosto 2018

Everest (2015)

"Perché è lì." È ciò che rispose un alpinista di nome George Leighmallory quando gli chiesero perché volesse scalare l'Everest. Il vecchio George era matto come un cavallo. Scalare l'Himalaya è la cosa più pericolosa che un uomo posa fare. Questa cima non è l'Everest ma non è comunque una passeggiata. Bisogna sempre avere una buona ragione per scalare una montagna. (Wolverine) 



Ho visto il film “Everest” su consiglio, un po' interessato e magari anche simpaticamente malizioso, di un mio collega. Per dirla in breve, mi ha deluso, anche se ammetto di averlo visto per intero con una buona dose di curiosità.

Non sono nuovo alla visione di film avventurosi, mi piacciono quelli sulla montagna, ma appunto per questo motivo ho molte riserve su “Everest”, proprio perché da un certo punto in avanti la vera assente è per l'appunto la Montagna. Ma come? Un film sull'Everest, sul tetto del mondo, su ciò che simboleggia, forse più di molto altro, l'avventura, la sfida, il coraggio, l'ardimento, a volte la superbia dell'uomo, il confronto fra l'umano e la Natura, ha come assente proprio quei 8.848 metri?

Secondo la mia visione e l'opinione che me ne sono fatto è proprio così. Proverò a scrivere perché. La prima parte sembra ben pensata e sviluppata dal regista islandese Baltasar Kormákur, con efficaci ed emozionanti movimenti di macchina, tanto ariosi e pieni di colore e pathos da far ben iniziare la visione e la narrazione di quella che si rivela una tragedia. Subito dopo, però, è tutto una lacrima, telefonate intercontinentali, scambi di parole d'amore e di pietismo stucchevole. Le ottime potenzialità date dall'ambientazione, suggestiva per qualunque spettatore, e dalla base di partenza definita dal saggio Aria sottile (Into Thin Air), scritto da Jon Krakauer su cui l'intera opera cinematografica si basa, vengono sprecate dalla deriva hollywoodiana, per la quale l'incontro/scontro fra uomo e natura e la fin troppo evidente suicida sfida con se stessi e col leviatano roccioso sono ridotte a poche battute da accademia. Prendono così il sopravvento i rapporti interpersonali, le componenti melodrammatiche e le dinamiche moglie/marito affidate alle di solito apprezzabili, ma qui poco più che belle figurine, Keira Knightley (piangente in ogni scena in cui sia presente) e Robin Wright. I personaggi femminili risultano fortemente penalizzati, persino se hai nel cast Emily Watson ed Elizabeth Debicki. Discorso analogo per i personaggi maschili. Risulta quasi una colpa difficilmente perdonabile sprecare il lusso di poter dirigere nello stesso film Josh Brolin, Jake “Donnie Darko” Gyllenhaal, Jason Clarke ed altri buoni attori per poi non permettere allo spettatore di “respirare” l'impresa, con la sua follia intrinseca, di “vivere” il dolore fisico e psicologico dei vari protagonisti, con le loro morti “telefonate” e la banalizzazione di un dramma che impedisce, inoltre, di godere appieno dell’unicità dei paesaggi.


La colonna sonora soffoca e rende fin troppo piccoli i personaggi, rende dell'Himalaya un'immagine vagamente oleografica, quasi da cartolina, superficiale a tal punto da non comunicare il silenzio, il vento, la tempesta. Elementi che cedono malinconicamente la scena agli ammiccamenti, alle facili emozioni, al melò, ad una narrazione didascalica che sottolinea ancora di più ed impietosamente il senso di un'occasione mancata.


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