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Post su Film, Libri, Mostre, Esperienze di vita, Fumetti, Cartoni Animati e quello che mi piace ed anche che mi piace di meno.
Non
sono un cliente, né un consumatore, né un utente, non sono un
lavativo, un parassita, né un mendicante, né un ladro, non sono un
numero di previdenza sociale, né un puntino su uno schermo. Ho
pagato il dovuto, mai un centesimo di meno, orgoglioso di farlo. Non
chino mai la testa, ma guardo il prossimo negli occhi e lo aiuto
quando posso. Non accetto e non chiedo elemosina. Mi chiamo Daniel
Blake, sono un uomo e non un cane; come tale esigo i miei diritti,
esigo di essere trattato con rispetto. Io, Daniel Blake, sono un
cittadino. Niente di più e niente di meno.
(Daniel
Blake/Dave Johns in “Io, Daniel Blake”, di Ken Loach - 2016)
“Un
cane corre per strada, inseguito da un ragazzo. Una lunga corda li
unisce, si impiglia nelle gambe dei passanti che brontolano, si
infuriano, il ragazzo non fa che mormorare “scusi, scusi” e tra
le scuse urla al cane: “Fermati! Stop!.”. Ma quello prosegue la
sua corsa. Vola in avanti, attraversa strade piene di traffico,
ignora i semafori rossi. Il mantello dorato sparisce e riappare agli
occhi del ragazzo, tra le gambe della gente, come un segnale
misterioso. “Piano” grida, e pensa che se almeno sapesse il suo
nome potrebbe chiamarlo e quello si fermerebbe, o almeno
rallenterebbe. Nell'intimo, però, sa che anche in quel caso il cane
continuerebbe a correre, e lo farebbe anche se la corda gli
stringesse il collo fino a soffocarlo. Continuerebbe a correre per
arrivare alla meta verso cui è lanciato. “Se solo ci arrivassimo!”
pensa. “Almeno sarebbe tutto finito.”.”
(Qualcuno
con cui correre, di David Grossman – trad. Alessandra Shomroni)
Terzo
appuntamento con il delegato di polizia Ezechiele Beretta,
interessante e accattivante personaggio nato dalla mente e dalla
“penna” di Dario Galimberti.
Chi,
come me, ha già letto ed apprezzato i due romanzi precedenti,
“L'Angelo del Lago” e “Un'Ombra sul Lago”, si accorgerà che
questa ideale trilogia (per il momento), non segue uno stretto
ordine cronologico.
Il
problema non si pone, potremmo dire, dal momento che le tre opere
sono pienamente godibili prese singolarmente e nel complesso
indipendenti le une dalle altre. Punto di forza ed allo stesso tempo
invito a non farsele sfuggire, dal momento che una volta fatta la
conoscenza dei personaggi e dell'ambientazione si prova il desiderio
di saperne e leggerne ancora.
L'autore
“gioca” con le linee temporali, imponendoci
un salto nel passato, addirittura doppio, il primo nel 1932 a cavallo
tra le due guerre, periodo dai lettori già conosciuto nei romanzi
citati, ed un secondo nel 1881, cinquanta anni prima, alla ricerca
dei colpevoli di una rapina sfociata in omicidio. Galimberti anche
ne “La Ruggine del Tempo” ci fa vivere e respirare le atmosfere
del tempo, descritte con attenzione ai particolari, storici ed
architettonici in particolare, che trasportano nella Lugano di un
tempo, fra il lungolago, le strade del centro ed i vicoli del
Sassello, quartiere che non esiste più.
Come
non esiste più il castello di Trevano, coprotagonista del romanzo,
tanto che può sorgere il dubbio che il romanzo stesso sia stato un
pretesto per parlare del castello. D'altra parte Galimberti è un
architetto e docente di Architettura!
Si
nota come “La Ruggine del Tempo” sia un romanzo che offre
vitalità e vita, non come un susseguirsi di vicende e colpi di
scena, bensì come escursione, o immersione se si preferisce, in una
trama ed in vicende ricche di dati, informazioni e suggestioni,
presentate con grande abilità ed innegabile conoscenza, frutto di
ricerche ma anche di sincero amore per luoghi, ambienti e Storia di
questi.
Lugano,
1881. Una
banda di ladri penetra nel castello di Trevano e fa razzia di
preziosi. Poco dopo Vera von Derwies, figlia del barone proprietario
del castello, muore in seguito a una caduta da cavallo. E nei giorni
seguenti la tragedia torna ad abbattersi sul castello: vengono
trovati senza vita lo stesso barone e un giovane inserviente, Nuto.
Cinquant’anni dopo, l’anziana Liside chiama al proprio capezzale
il figlioccio Ezechiele Beretta, massima autorità della polizia
cittadina, e gli chiede di indagare sulla morte di Vera. Ormai
prossima alla fine, la donna – all’epoca dei fatti in servizio al
castello – non riesce a darsi pace: è convinta che quella caduta
da cavallo non sia stata accidentale. Nonostante le circostanze della
richiesta e le prove inconsistenti, il Beretta si interessa al caso:
assistito dall’appuntato Bernasconi appura che le teorie di Liside
sono più plausibili del previsto, e qualcosa non quadra neanche
nella morte del povero Nuto. L’indagine storica si sovrappone a
quella su una morte più recente e altrettanto misteriosa, che porta
Beretta a scontrarsi con personaggi in vista della Lugano che conta e
tinge di sangue le acque blu del lago che bagna la città. (da
libromania.net)
Tamsin:
Nietzsche. È stato un grande filosofo del nichilismo. Egli pensava
che a questo mondo nascono persone destinate a primeggiare sugli
altri, anzi a imporsi sui comuni mortali. E se questi dovessero
soffrire per causa loro, non ha importanza, ciò che conta è la loro
superiorità. Come in Shakespeare e in Wagner. Se Nietzsche avesse
sentito tuo fratello, l'avrebbe fatto impiccare. Quel suo farneticare
su Dio! Dio è morto. Dio è morto, è solo questa la realtà.
Mona:
Sì, ma non per tutti.
(Tamsin/Emily
Blunt e Mona/Natalie Press in “My Summer of Love”, di Paweł
Pawlikowski - 2004)
La
sceneggiatura, in questo numero 27 della serie di Samuel
Stern, affronta con coraggio due tematiche spesso distinte ma che
mirabilmente si incontrano: il terrorismo politico e, forse
soprattutto, l’eutanasia. La storia che propone non semplici
riflessioni, sebbene carica e caratterizzata dal sovrannaturale,
riporta tematiche quotidiane, che rendono la lettura molto
accattivante e provvista di un ritmo costante ed allo stesso tempo
equilibrato, nelle pause e nell'azione .
Alla storia
si abbinano molto bene i disegni di Annapaola Martello che riesce,
grazie a giochi di ombre ed alla luce, a sottolineare la
drammaticità della situazione. L’espressività dei personaggi
gioca un ruolo fondamentale, donando una tale profondità psicologica
che quasi non ci si accorge di essere rimasti pressoché per tutto
l'albo nella stessa, unica, stanza e nei ricordi e pensieri di una
persona.
“Alle
diciannove, ora di bordo, passai in mezzo ai meccanici, fermi accanto
al pozzo di lancio, e per la scaletta a mano scesi nella capsula. Ci
stava giusto un uomo, con lo spazio appena sufficiente per muovere i
gomiti. Una volta avvitata sulla paratia la bocchetta del mio sistema
pneumatico antiaccelerazione, la tuta si gonfiò e da quell'istante
non potei più fare neanche il minimo movimento. In posizione eretta,
anzi, direi sospeso in un cuscino d'aria, ero tutt'uno con lo scafo.”
Con
“I
Figli della Polvere”
Guanda cerca di “farsi perdonare” una scelta editoriale che
personalmente non sono in grado di comprendere fino in fondo. La
casa editrice emiliana che pubblica le opere di Arnaldur Indriðasonci
propone il primo episodio della serie
diErlendur
Sveinsson,
diversi anni dopo aver iniziato a presentare l'autore islandese.
Chi
conosce la serie ed i suoi protagonisti si rende conto, fin dalle
prime pagine, che l'ambientazione
ed il paesaggio fisico e sociale è già ben proposto e delineate
sono le linee principali sulle quali lo scrittore si muove.
In
questo romanzo, però, rimane ancora molto da conoscere e scoprire su
Sveinsson, che non è propriamente il protagonista della vicenda e a
cui viene dato uno spazio relativo, nell'economia del romanzo.
Trama
intricata quanto basta, indagini che più che svelare accompagnano
misteri, bugie, insabbiamento di prove ed una scrittura che presenta
uno svolgimento
ben architettato e convincente
fanno di questo romanzo un buon modo per avvicinarsi alla serie, in
particolare per chi non ne ha ancora letto nulla.
L'autore
probabilmente doveva ancora chiarirsi qualche elemento, forse non
era, allora, del tutto convinto e consapevole che Sveinsson sarebbe
diventato un personaggio a cui legarsi e così seguito. Fatto sta che
specie i capitoli finali sono un po' distanti dal prosieguo della
serie, motivo per cui nel complesso “I Figli della Polvere” mi è
sembrato meno riuscito rispetto a gran parte dei romanzi successivi.
Questo non toglie che la lettura sia stata appagante, inoltre la
soddisfazione di scoprire “come tutto sia iniziato” mi fa
“perdonare” la casa editrice.
Nota:
è il primo romanzo della serie di Erlendur Sveinsson non tradotto da
Silvia Cosimini, bensì da Alessandro Storti, della cui traduzione ho
letto il primo romanzo della Reykjavík
Wartime Mistery“Una Traccia nel Buio”.
In
una fredda notte di gennaio, Daníel, da anni ricoverato per
schizofrenia presso un ospedale psichiatrico di Reykjavík, si uccide
gettandosi da una finestra sotto gli occhi del fratello Pálmi. Poche
ore dopo, in un altro quartiere, un anziano insegnante in pensione
muore nell’incendio doloso della sua casa. Le due morti,
apparentemente così lontane fra loro, hanno in realtà un punto di
contatto: Daníel è stato allievo del professore negli anni Sessanta
e i due negli ultimi tempi si erano incontrati più volte… Ora
spetta all’ispettore Erlendur e alla sua squadra investigativa
scoprire quale segreto inimmaginabile nasconde questa turbolenta
relazione. Personaggi avvincenti, suspense, dilemmi morali e ricerca
della giustizia: in questo primo thriller della serie troviamo tutti
gli elementi che hanno portato Arnaldur Indriðason al successo
internazionale e facciamo conoscenza con il tormentato e geniale
Erlendur, cupo e mutevole come il cielo islandese.
(da guanda.it)
Io
credo che la mia sia un'altra causa persa signor Paine. Forse i miei
colleghi non sanno di cosa sto parlando, ma il signor Paine sì. Un
giorno mi disse che solo per questo vale la pena combattere, lui un
tempo non si tirava indietro e lottava con coraggio contro tutto e
tutti. Perché seguiva ciecamente questa semplice massima: ama il tuo
prossimo. E oggi in questo mondo pieno di odio l'uomo che segue
questa massima è il solo degno di rispetto, lei conosce questa
massima signor Paine. Io l'ho sempre ammirata come l'ammirava mio
padre, insieme avete lottato con entusiasmo per vincere quelle cause
perse, anche a costo della vita. Come è stato per un uomo che noi
conoscevamo bene. Lei mi crede finito, tutti mi credete finito, be'
vi sbagliate. Io continuerò a lottare per questa causa persa, perché
se altre menzogne come queste invaderanno l'aula, anche se quelli
come Taylor cercheranno in tutti i modi di chiudermi la bocca, io
andrò avanti nella mia battaglia.
(Jefferson
Smith/James Stewart in “Mr Smith va a Washington”, di Frank Capra
- 1939)
“Nel
vicolo dove era andato a infilarsi non c'era nessun lampione. Buio
pesto dappertutto. Era una stradina stretta nel quartiere di Port
Richmond, a Philadelphia. Un vento gelido proveniente dal vicino
Delaware spazzava ogni cosa e consigliava alle prostitute di andarsi
a cercare un posticino al caldo. L'aria fredda di novembre faceva
tremare le finestre oscurate nel cuore della notte e prendeva a
pugnalate gli occhi dell'uomo sdraiato in mezzo alla strada,
immobile. Era inginocchiato accanto al marciapiede. Respirava a
fatica e sputava sangue. Sospettava seriamente di essersi fratturato
le ossa del cranio. Stava correndo alla cieca a testa bassa e
naturalmente non aveva visto il palo del telefono, andandoci a
sbattere in pieno. L'urto era stato tremendo e l'aveva fatto
rimbalzare all'indietro sull'acciottolato. Voleva mollare tutto e
restare steso lì.”
(Sparate
sul pianista, di David Goodis – trad. Francesco Salvi)
Mi
perdoni, padre, perché ho peccato. Sono tre mesi che non mi
confesso. I miei peccati sono questi. Ho nominato il nome di Dio
invano in varie occasioni. In varie occasioni ho preso dei giornali
senza pagarli. Ho deliberatamente tratto piacere da pensieri
impuri... e sono stato coinvolto in un certo lavoro... che credo
verrà usato per far del male a due giovani. Mi era già successo.
Che alcuni ci rimettessero per il mio lavoro. Temo che possa
succedere di nuovo... e io non ero minimamente responsabile. Non sono
responsabile. Per questo e tutti gli altri peccati sono sinceramente
pentito.
(Harry
Caul/Gene Hackman in “La Conversazione”, di Francis Ford Coppola
- 1974)
“Sarà
dura, pensavano i parigini. Aria di primavera. Una notte di guerra,
l'allarme. Ma la notte svanisce, la guerra è lontana. Quelli che non
dormivano, i malati nei loro letti, le madri con un figlio al fronte,
le donne innamorate con gli occhi sciupati dal pianto, sentivano il
primo soffio della sirena, ancora solo un ansito profondo simile al
sospiro che esce da un petto oppresso. In pochi istanti il cielo
tutto si sarebbe riempito di clamori. Che venivano da lontano,
dall'estrema linea dell'orizzonte – senza fretta si sarebbe detto.
Quelli che dormivano sognavano il mare che spinge davanti a sé i
ciottoli e le onde, la tempesta di marzo che scuote la foresta, una
mandria di buoi che galoppano pesanti facendo tremare il suolo con
gli zoccoli; ma il sogno finiva e socchiudendo appena gli occhi gli
uomini mormoravano: ' è l'allarme?'. ”
(Suite
Francese, di Irène Némirovsky – trad. Laura Frausin Guarino)