Mi sono
avvicinato a “Ghost in the Shell”,
il film del 2017 di Rupert Sanders, con cautela e un po' di
titubanza, come si fa, o comunque sono solito fare, nel momento in
cui scelgo di vedere ciò che si presenta come un remake, o quasi, di
qualcosa che ho molto amato. In effetti il film è molto vicino
all'omonimo anime datato 1995
per la regia di Mamoru Oshii, a sua volta basato
sul manga di Masamune Shirow.
Ne
avevo letto parecchie critiche negative, a volte spietate, basate su
più aspetti e considerazioni, per cui ho dovuto impegnarmi
maggiormente per poterlo guardare con la migliore predisposizione
possibile. Credo che il film non sia affatto
male, a patto di evitare almeno in parte il diretto confronto con
l'anime anni 90. In caso contrario la lotta è
decisamente impari, sebbene permanga qualche elemento positivo.
Dunque
così ho cercato fare e la mia considerazione è che “Ghost in the
Shell” di Sanders meriti attenzione ed una possibilità anche da
parte dei fan dell'animazione giapponese.
Se
la prima parte si risolve in poco più di una emulazione di quanto
visto vent'anni prima, con scene talmente identiche da poter
sovrapporre i fotogrammi dell'una e dell'altra opera, nel prosieguo
della visione il film acquista una sua dimensione e prende una sua
strada. Spinge sull'action movie e vira la
riflessione e le vicende della protagonista sul versante della
ricerca della propria identità, del proprio passato.
Ovvero inserisce elementi tutto sommato conosciuti, quasi classici,
su un impianto fantascientifico che guarda al cyberpunk, dove
elementi thriller e polizieschi rendono il tutto maggiormente alla
portata del grande pubblico. Il cyberpunk oggi è poco conosciuto e
paga una carente diffusione, tra i più giovani in particolare.
Pertanto averlo riproposto e portato in scena in grande stile e con
vasta diffusione ritengo sia un'ottima cosa, pur con le
semplificazioni stilistiche e drammaturgiche del caso.
I
puristi ne rimangono inorriditi, ma un fetta non trascurabile del
pubblico può farsi coinvolgere e magari (ri)avvicinarsi
al genere. La fantascienza ed il cyberpunk hanno ancora molto da
dire. Inoltre le critiche alla scelta come protagonista di Scarlett
Johansson,
con annesse accuse di whitewashing, dal
momento che nel manga originale la protagonista, Motoko Kusanagi, è
di etnia asiatica, mi sembrano ingenerose. Innanzitutto per gran
parte del film non viene usato il nome Motoko, e quando si comincia a
farlo è per inserire una deviazione narrativa e drammaturgica
precisa, con molte e fondate giustificazioni e motivazioni. Inoltre
l'attrice statunitense si è molto ben destreggiata nel ruolo, con
buone prove nelle scene d'azione e tipicamente da science fiction
thriller così come in quelle maggiormente dialogate e narrative (in
fondo è pur sempre un membro degli Avengers, no?).
Al limite la sua statura, non propriamente notevole, ha un po'
penalizzato la resa scenica nei momenti in cui la si vede fianco a
fianco con i protagonisti maschili. Infine anche nell'anime, così
come nel manga, le fattezze del maggiore da lei interpretato non sono
così spiccatamente asiatiche, come poi accade in molti altri esempi
di opere cinematografiche o fumettistiche (anime
e manga spesso hanno personaggi con viso e fattezze occidentali,
secondo la tradizione produttiva).
In
buona sostanza, se si guarda al film con il cuore e gli occhi
all'anime, quest'ultimo vince nettamente e con facilità soprattutto
per la profondità di riflessione e l'impianto narrativo-scenico,
viceversa se si offre un'opportunità a Sanders, alla Johansson, a
Takeshi Kitano ed agli altri attori coinvolti, non si rimane del
tutto delusi e viene la voglia di chiedere altre opere di
fantascienza con elementi filosofici, che possano raggiungere il
pubblico ed anche solo intrattenerlo con discreta qualità.