mercoledì 31 luglio 2019

Ghost in the Shell (2017)


Mi sono avvicinato a “Ghost in the Shell”, il film del 2017 di Rupert Sanders, con cautela e un po' di titubanza, come si fa, o comunque sono solito fare, nel momento in cui scelgo di vedere ciò che si presenta come un remake, o quasi, di qualcosa che ho molto amato. In effetti il film è molto vicino all'omonimo anime datato 1995 per la regia di Mamoru Oshii, a sua volta basato sul manga di Masamune Shirow.

Ne avevo letto parecchie critiche negative, a volte spietate, basate su più aspetti e considerazioni, per cui ho dovuto impegnarmi maggiormente per poterlo guardare con la migliore predisposizione possibile. Credo che il film non sia affatto male, a patto di evitare almeno in parte il diretto confronto con l'anime anni 90. In caso contrario la lotta è decisamente impari, sebbene permanga qualche elemento positivo.

Dunque così ho cercato fare e la mia considerazione è che “Ghost in the Shell” di Sanders meriti attenzione ed una possibilità anche da parte dei fan dell'animazione giapponese.
Se la prima parte si risolve in poco più di una emulazione di quanto visto vent'anni prima, con scene talmente identiche da poter sovrapporre i fotogrammi dell'una e dell'altra opera, nel prosieguo della visione il film acquista una sua dimensione e prende una sua strada. Spinge sull'action movie e vira la riflessione e le vicende della protagonista sul versante della ricerca della propria identità, del proprio passato. Ovvero inserisce elementi tutto sommato conosciuti, quasi classici, su un impianto fantascientifico che guarda al cyberpunk, dove elementi thriller e polizieschi rendono il tutto maggiormente alla portata del grande pubblico. Il cyberpunk oggi è poco conosciuto e paga una carente diffusione, tra i più giovani in particolare. Pertanto averlo riproposto e portato in scena in grande stile e con vasta diffusione ritengo sia un'ottima cosa, pur con le semplificazioni stilistiche e drammaturgiche del caso.

I puristi ne rimangono inorriditi, ma un fetta non trascurabile del pubblico può farsi coinvolgere e magari (ri)avvicinarsi al genere. La fantascienza ed il cyberpunk hanno ancora molto da dire. Inoltre le critiche alla scelta come protagonista di Scarlett Johansson, con annesse accuse di whitewashing, dal momento che nel manga originale la protagonista, Motoko Kusanagi, è di etnia asiatica, mi sembrano ingenerose. Innanzitutto per gran parte del film non viene usato il nome Motoko, e quando si comincia a farlo è per inserire una deviazione narrativa e drammaturgica precisa, con molte e fondate giustificazioni e motivazioni. Inoltre l'attrice statunitense si è molto ben destreggiata nel ruolo, con buone prove nelle scene d'azione e tipicamente da science fiction thriller così come in quelle maggiormente dialogate e narrative (in fondo è pur sempre un membro degli Avengers, no?). Al limite la sua statura, non propriamente notevole, ha un po' penalizzato la resa scenica nei momenti in cui la si vede fianco a fianco con i protagonisti maschili. Infine anche nell'anime, così come nel manga, le fattezze del maggiore da lei interpretato non sono così spiccatamente asiatiche, come poi accade in molti altri esempi di opere cinematografiche o fumettistiche (anime e manga spesso hanno personaggi con viso e fattezze occidentali, secondo la tradizione produttiva).


In buona sostanza, se si guarda al film con il cuore e gli occhi all'anime, quest'ultimo vince nettamente e con facilità soprattutto per la profondità di riflessione e l'impianto narrativo-scenico, viceversa se si offre un'opportunità a Sanders, alla Johansson, a Takeshi Kitano ed agli altri attori coinvolti, non si rimane del tutto delusi e viene la voglia di chiedere altre opere di fantascienza con elementi filosofici, che possano raggiungere il pubblico ed anche solo intrattenerlo con discreta qualità.

lunedì 29 luglio 2019

Citazioni Cinematografiche n.313

Skeeter: Ce ne servono almeno dodici.
Minny: Io e Aibileen l'abbiamo chiesto a tutte. Trentuno cameriere. Hanno troppa paura, ci prendono per matte.
Skeeter: Be', se non ne troviamo altre, non ci pubblicano.
Minny: Io ho tante storie, Miss Skeeter. Lei le scrive e poi si inventa la cameriera che l'ha detta. Si è già inventata i nomi, si inventi anche le cameriere.
Skeeter: Non possiamo farlo, sarebbe sbagliato.
Aibileen: Non deve arrendersi Miss Skeeter.
Skeeter: Ma non sarebbe una cosa autentica!
Aibileen: Hanno ucciso mio figlio. È caduto portando delle travi alla segheria. Un camion gli ha schiacciato un polmone. Il capo mastro ha buttato il corpo nel cassone di un camion. È andato all'ospedale dei negri, l'ha scaricato davanti e ha suonato il clacson... Non c'era niente da fare, così ho portato il mio bambino a casa. L'ho messo sdraiato su quel divano. È morto davanti a me... e aveva ventiquattro anni, Miss Skeeter, sono gli anni più belli della vita. Quando arriva l'anniversario della sua morte, io ogni anno non riesco a respirare, ma per voi è solo un altro giorno di bridge. Se lei si ferma, quello che ho scritto io e che ha scritto lui, tutto quello che era lui, morirà con lui.

(Eugenia "Skeeter" Phelan/Emma Stone e Aibileen Clark/Viola Davis in "The Help", di Tate Taylor - 2011) 




venerdì 26 luglio 2019

Giallo, Noir & Thriller/70

Titolo: Oxen - la prima vittima
Autore: Jens Henrik Jensen
Traduttore:Margherita Podestà Heir
Editore: Salani - 2019



Oxen – la prima vittima” si presenta come il romanzo iniziale di una trilogia che promette bene, per le peculiarità del protagonista, l'ambientazione, il ritmo che si presenta pagina dopo pagina e per la capacità di scrittura veramente interessante. Jens Henrik Jensen, l'autore, non ha fretta di offrire al lettore tutto quello che ha in serbo per lui (o lei!), bensì calibra e dosa gli avvenimenti, centellina i colpi di scena, mai banali o deludenti, per comporre un buon racconto, che solo apparentemente potrebbe essere considerato l'inizio di un percorso di redenzione.
Certo, Oxen è un vagabondo, un balordo che ha abbandonato la civiltà, forse un semplice uomo vittima dei propri incubi e delle circostanze, ma anche un pluripremiato veterano di guerra, ex membro delle forze speciali danesi. Questo mix, stimolante, ma che avrebbe potuto portare a risultati modesti, viene invece valorizzato, mettendo il protagonista nella scomoda condizione di poter essere allo stesso tempo colpevole di omicidio, perfetto capro espiatorio, oppure eccellente e strategica risorsa per i servizi segreti. 
 

Si entra lentamente nel cuore della vicenda, come capita spesso nei thriller nordici, ma capitolo dopo capitolo qualcosa si modifica nel corso del romanzo, siamo di fronte a qualcosa di diverso. A seguire la descrizione di alcuni semplici eventi, utili per stuzzicare la curiosità e la voglia di mistero, la presentazione di luoghi e persone, nonché dello stesso Oxen, l’autore trasporta il lettore nel suo mondo. La scrittura è curata, non lenta come a volte lamentano i detrattori della letteratura scandinava, le descrizioni servono a creare un’atmosfera affascinante che avvolge il romanzo sino alla fine, dove una cornice naturale quasi incontaminata fa da sfondo a misteri che si infittiscono e trame che si complicano.
Il meccanismo narrativo funziona, facendo leva e sostenendosi su due punti fermi: il protagonista e la trama complessa. Quasi una lezione di scrittura thriller!
Quindi sembra che si abbia a che fare con un’indagine, tutto sommato classica, su un potenziale serial killer che si firma attraverso l’impiccagione dei cani delle vittime, si pensa che si arrivi a trattare e approfondire alcune magagne dell’alta borghesia danese, con annesso pistolotto magari. Invece il libro acquista velocità nel corso dei capitoli, si aggiungono elementi da spy story e cadenze da thriller storico, che ben si armonizzano tra loro, senza mai scivolare nell’inverosimiglianza che a volte si trova nei racconti che svelano trame di società segrete.
Il finale rivela ma allo stesso tempo complica. La storia di Oxen è appena iniziata, lasciandoci nell'attesa di leggere il prossimo capitolo.


Due degli uomini più influenti della Danimarca sono morti in circostanze sospette. Non sembra esserci alcun collegamento tra i casi, se non fosse per un inquietante particolare: i cani delle vittime sono stati impiccati poco prima della morte dei padroni. Quando anche l’ex ambasciatore Hans-Otto Corfitzen viene trovato morto nel suo castello, nei boschi di Rold Skov, dopo che il suo bracco è stato impiccato, non c’è più alcun dubbio che si tratti di omicidi seriali…

lunedì 22 luglio 2019

Citazioni Cinematografiche n.312

Sentivo puzza di qualcosa, mi hanno dato lo sbirro sbagliato
(Eddie Bunker/Mos Def in "Solo due ore", di Richard Donner)


sabato 20 luglio 2019

Odessa #2






Con la lettura del numero 2, “Eroe a metà”, continua la scoperta della serie Bonelli “Odessa”. Si confermano le potenzialità e gli elementi positivi visti nell'albo d'esordio, con una maggiore profondità narrativa, ma anche qualche limite nelle modalità di racconto stesso, ovvero l'abbondanza del verbale a scapito delle immagini. Infatti, su quest'ultimo punto possiamo notare come nei momenti, nei passaggi in cui ci si allontana da questa impostazione e si opta per delle scene mute, la storia raggiunge efficaci livelli di pathos.
Passando agevolmente fra passato e presente, con la presentazione e risoluzione di due differenti indagini, la sceneggiatura ha la possibilità di approfondire la personalità e le problematiche del protagonista, Yakiv Yurakin, oltre che le caratteristiche del contesto in cui lui stesso ed i suoi compagni si muovono. Si attendono potenziali ed auspicabili sviluppi, nella speranza che siano, come in questo caso, ben supportati da un comparto grafico interessante e stimolante. 
 
Il disegnatore e colorista, Simone Ragazzoni, ci offre coinvolgenti ambientazioni che caratterizzano la serie e utilizza con intelligenza e sapiente distribuzione nelle tavole un certo dinamismo nelle scene d’azione. Insieme allo sceneggiatore Davide Rigamonti prosegue l’opera di costruzione di un contesto narrativo al momento promettente, ricco di spunti e di sfumature, con la piacevole sorpresa dell'inserimento di elementi realistici e drammatici su uno sfondo essenzialmente fantascientifico.

Essere un eroe è un fardello difficile da portare. Una condizione schiacciante che, a volte, fa emergere paure difficili da domare. Perché a farne le spese sono sempre le persone più care? A che cosa servono le domande quando sono destinate a rimanere senza risposta? Yakiv ha bisogno di tempo per restare solo; per pensare. E se non fosse altro che un eroe a metà? (da sergiobonelli.it)


martedì 16 luglio 2019

Scorreva un vento caldo




Scorreva un vento caldo sugli abeti
tenebrosi da secoli, e portava
da fondali africani un grido lungo
come un corno da caccia. Solo il tonfo
delle pigne ritmava il suo ruggito
lontano, quasi musica, e rasente
il disco della luna, rari uccelli
notturni sciabolati sul confine
d'ombra e di luce qui da te giungevano
a portare messaggi che ora il tempo
mi esalta e mi confonde. Fu una notte
di aspettazione, e lento San Lorenzo
si annunciava con pianti di comete,
gigli che si sfogliavano nel buio
senza mani a raccoglierli. Passavano
lungo il tratturo i cani dei pastori,
neri dentro la tenebra dei pini,
i cani, occhi provvidi del giorno
e ora anime perse, inquieti lemuri
dell'estate che scavano entro zone
precluse il loro grido di rivolta,
e da millenni lo affidano al canto
delle sorgenti in corsa verso il mare.


(Maria Luisa Spaziani) 


lunedì 15 luglio 2019

Citazioni Cinematografiche n.311

Nessuno: Se te ne vai anche tu qui chi ci rimane? Nessuno.
Jack: Smettere a volte è più difficile che cominciare.
 
Nessuno: Smettere è giusto, ma uno come te deve finire in bellezza.

(Nessuno/Terence Hill e Jack Beauregard/Henry Fonda in "Il mio nome è Nessuno", di Tonino Valerii - 1973)




 

sabato 13 luglio 2019

Internet, social network, ignoranza, intolleranza


Quando, poco più di 20 anni fa, anche per me ed altri a me vicini iniziò la rivoluzione del web, principalmente grazie alle sale attrezzate nei laboratori universitari, ingenuamente buona parte di noi credette (e cedette) all'illusione di un nuovo modo di conoscere, sapere, trasmettere e condividere. La promessa di una conoscenza più diffusa, più “libera”, qualunque cosa potesse significare, anche se per noi sembrava chiaro. Una possibilità di informarsi ed informare, di farsi un'idea, anche di studiare e farsi conoscere. Perché no, anche l'ideale di una controinformazione, che si opponesse ai canali tradizionali o anche solo dialogasse in modo “battagliero” con la cultura dominante. Il miraggio di una base, di una strada per diffondere nomi, fatti, dati, ragionamenti, riflessioni e spunti che divenissero sapere controegemonico.
Chissà se eravamo solamente ingenui oppure troppo accademici, a nostro modo nuovi illuministi che credevano che quello strumento, il web, avrebbe portato solo cose buone e positive, tanto da elevarci ed elevare tutto e tutti ad una inedita ed entusiasmante dimensione, di conoscenza e di condiviso progresso verso nuovi orizzonti culturali e sociali. All'inizio sembrava effettivamente così, o almeno pensavamo lo fosse, anche perché alle prese con i movimenti “no-new global”, le tesi universitarie, i confronti su Noam Chomsky, Naomi Klein e la voglia di progresso e di crescita sostenibile, di condivisione di file musicali, di video e testi al di fuori delle “gabbie” commerciali. Si potevano leggere ed ascoltare contributi di studiosi, scienziati, storici, scrittori, professori ed altre importanti personalità, anche solo per il gusto di poterne poi discutere insieme e litigare con cognizione di causa, soprattutto sapendo il più possibile di cosa si parlasse.


Già cominciavano a sorgerci dubbi e perplessità quando ci rendemmo conto che spesso il web era pieno e prodigo di altro, sotto forma di pubblicità varie, notizie inventate, inviti a partecipare a “catene di messaggi” e milioni di foto di gattini in bottiglia ed altre bestie. La cosa, almeno dal punto di vista di chi scrive, ha preso una tragica e grottesca deriva con la diffusione degli smartphone e la disponibilità dei vari social network.
In buona sostanza, allo stato attuale, Internet ed i social network, in modo tanto repentino quanto sospettosamente sfruttato, sono riusciti a sovvertire la nostra visione di allora. Hanno tolto gran parte della loro autorità a coloro che una volta erano considerati degni di essere letti ed ascoltati, tragicamente prendendo solo il lato più negativo di una possibile rivoluzione, ovvero gettare tutto quello che anche solo aveva parvenza di accademico, di elevato, di imposto dall'alto. Ora i cosiddetti esperti, anche e soprattutto quelli che lo sono veramente in virtù di studi, ricerche ed impegno culturale e di conoscenza, non vengono più ascoltati, anzi denigrati. Internet ed i social network hanno promosso e reso più visibili i non esperti, i colpevoli ignoranti potremmo dire, quelli che sfoggiano e si fanno onore del loro anti-intellettualismo, del loro essere vicini alla “gente comune”. Come se l'ignoranza e l'incompetenza fossero una virtù, persino un punto di forza, una privilegiata condizione socio-politica. Questa spietata critica della competenza, condita di “questo lo dice lei”, “ma dove sta scritto”, “non è necessario essere laureati per...” e così via, ha avuto conseguenze nel migliore dei casi ambigue, quando non drammatiche e pericolose, poiché ha aperto la via all'ignoranza e all'intolleranza. Ignoranza ed intolleranza di successo, considerando lo spazio ad esse dedicato, le ospitate in televisione, le foto sui giornali, nonché le dichiarazioni e comportamenti di certi ministri e sottosegretari attualmente in carica.
Insomma la critica della competenza ha innalzato a merito e vanto l'incompetenza, l'ignoranza e l'intolleranza, propagate e diffuse attraverso internet ed i social network, che si sono rivelati strumenti delicati e vengono usati in modo opposto dal fornire una base ed una possibilità per il sapere, il conoscere, la diffusione del metodo scientifico ed il progresso collettivo e condiviso.

mercoledì 10 luglio 2019

Giallo, Noir & Thriller/69


Titolo: Fiori sopra l'inferno
Autore: Ilaria Tuti
Editore: Longanesi - 2018

A volte mi capita di leggere libri contemporanei in cui i dialoghi risultano finti, al limite dell'artefatto e dell'innaturale, facendomi chiedere se esista veramente qualcuno che parli in quel modo, con una stupefacente ricerca di vocaboli ed una particolare cura nella scelta dei tempi e modi verbali. Sono d'accordo che la letteratura debba cercare, almeno un po', di salvaguardare l'educazione di una lingua e magari aiutare qualche lettore ad esprimersi in modo corretto, ma è mai possibile che tutti i personaggi di un romanzo riescano a dialogare tra loro come fossero usciti dall'Accademia della Crusca?

Nel caso di “Fiori sopra l'inferno” questo non accade, dal momento che i dialoghi sono molto vivi e reali, opportunamente dosati fra le pulsioni umane concrete, le enfasi e cadute proprie di persone comuni e la doverosa necessità di giungere alle “orecchie” di ogni lettore. Il discorso è diverso per quanto riguarda le descrizioni ambientali ed i passaggi di raccordo, dove invece ho notato un certo eccesso di enfasi, probabilmente voluta dall'autrice Ilaria Tuti proprio per evidenziare una comunque non disprezzabile distanza fra il parlato ed il raccontato/rappresentato.

Al centro di tutto c'è un bel personaggio femminile, Teresa Battaglia, una profiler che tra le montagne del Friuli (molto riconoscibili i luoghi descritti per chi li ha frequentati) si trova a fronteggiare sia una serie di eventi drammatici legati ad un passato angosciante che le sue problematiche fisiche ed emotive, che rischiano di farla precipitare in una rischiosa condizione psicologica . Questo aspetto, seppur qui ben esposto e oggettivamente coinvolgente, personalmente comincia a venirmi un po' a noia. L'ennesimo commissario dal passato cupo e misterioso, che si porta addosso cicatrici e spigolosità di ogni tipo, burbero e brusco con chi lavora e così via. Tutto vero, ma il fatto che Teresa Battaglia sia una profiler ed una donna oltre i 50 dona una certa originalità al tutto, il resto lo fanno i dialoghi e l'amore per i luoghi e le psicologie dei personaggi. Un thriller che procede molto serrato per due terzi abbondanti delle pagine, poi rallenta e qualche passaggio è al limite del “telefonato”, del prevedibile, anche se capacità di scrittura e solidità dell'idea non vengono mai messe in discussione.

Il lettore, superate le legittime riserve legate alla tipologia di protagonista, una donna molto “vera” seppur su un solco già ampiamente sfruttato, si gode la vicenda e in qualche modo si appassiona sia alla sorte delle vittime che dei colpevoli che, quali testimoni così come agenti dei fatti, donano un certo brio al tutto. Si perdonano quindi alcune lentezze, si gusta il mix fra tensione, violenza, tematiche sociologiche ed azione, con il desiderio, alla fine, di saperne di più sui protagonisti e sull'ambiente.






lunedì 8 luglio 2019

Citazioni Cinematografiche n.310

Walter Keane: Devo farti una domanda. Come mai questi grandi occhi strani?
Margaret: Oh, vedi io penso che si vedano tante cose negli occhi. Gli occhi sono lo specchio dell'anima.
Walter Keane: Sì, ma tu li fai come fossero frittelle! Sono troppo sproporzionati.
Margaret: Sì, gli occhi sono il modo in cui esprimo le mie emozioni. Li ho sempre disegnati così. Da piccola un'operazione mi ha lasciata sorda per un periodo e così mi sono ritrovata a fissare con lo sguardo. Mi affidavo agli occhi della gente.

(Walter Keane/Christoph Waltz e Margaret/Amy Adams in "Big Eyes", di Tim Burton - 2014) 



domenica 7 luglio 2019

Take me out tonight


 
Take me out tonight
Where there's music and there's people
And they're young and alive
Driving in your car
I never never want to go home
Because I haven't got one
Anymore 
 
Take me out tonight
Because I want to see people and I
Want to see life
Driving in your car
Oh, please don't drop me home
Because it's not my home, it's their
Home, and I'm welcome no more 
 
...
 

venerdì 5 luglio 2019

Accusare, non accusare


Accusare gli altri delle nostre disgrazie è prova di umana ignoranza. Accusare noi stessi è cominciare a capire. Non accusare né gli altri né noi stessi, questa è la vera saggezza.
(Epittéto) 


martedì 2 luglio 2019

Autunno Tedesco, di Stig Dagerman - Iperborea

Titolo: Autunno Tedesco
Autore: Stig Dagerman
Traduttore: Massimo Ciaravolo
Editore: Iperborea - 2018


Un libro non semplice “Autunno Tedesco” di Stig Dagerman, edito da Iperborea.
Non semplice, a tratti addirittura difficile da leggere, per quanto dice e come lo dice, sebbene la scrittura sia brillante e curata, anche grazie alla efficace traduzione.

Durante l'autunno del 1946 il giovane giornalista svedese Dagerman viene inviato dal suo giornale a compiere un viaggio nella Germania uscita da circa un anno dal conflitto. Ne viene fuori una serie di appassionati reportage, qui raccolti, che vanno oltre la semplice visione di uno straniero in viaggio di lavoro, superano stereotipi e frasi di circostanza, abbandonano facili semplificazioni per proporre una riflessione etico-umanistica sul dolore, la sofferenza, la fame ed il desiderio di un popolo, anzi di una serie di individui di ogni età e condizione, di tornare a vivere.

Poiché difficilmente si può considerare una vita degna di essere vissuta quella che costringe al freddo, all'oscurità, all'umidità di cantine e case distrutte. Una vita fatta di sacrifici e dolori, per qualche patata o solo le bucce di patate, quasi imposta come espiazione di una colpa collettiva. I tedeschi devono soffrire e pagare per quanto fatto durante il nazionalsocialismo e la guerra. Molti cronisti ed analisti abbracciano questa tesi, durante quel periodo. Dagerman va oltre. Il suo compito è visitare le città bombardate dagli alleati: Amburgo, Berlino, Hannover, Dusseldorf, Essen, Colonia, Francoforte, Heidelberg, Stoccarda, Monaco, Norimberga e Darmstad. Nel farlo non si risparmia e non risparmia al lettore pressoché nulla. Nell’immaginario collettivo è incredibile che qualcuno possa dire: “Si stava meglio quando c’era il nazismo”. Eppure, quando un cittadino qualunque è costretto a soffrire la fame, a non avere una casa, a non riuscire a mandare a scuola i figli, è davvero possibile stupirsi di fronte a questa affermazione? Dagerman con molta lucidità ribalta le convinzioni comuni dell’epoca. Il mondo non si divide in bianco e nero, e lo svedese riesce a dimostrarlo con una chiarezza disarmante, attraverso descrizioni e riflessioni chiare ed efficaci, che giungono come schiaffi sul viso del lettore, costretto a ragionare sul senso della Storia, sugli aspetti dell'umano e dei sentimenti. Chiari i riferimenti anche al Brecht de “L'opera da tre soldi”, in particolare sulla questione della fame e della pancia vuota, ma si procede ancora oltre, sempre di più ed implacabilmente, mettendo alle strette anche il lettore di questa prima parte di 21° secolo.

Inoltre in Autunno tedesco ci sono, implacabili, pagine dedicate alla farsa grottesca della denazificazione: solo a Stoccarda devono essere processate centoventimila persone.
“L’imputato ha sei testimoni pronti a sostenere la sua innocenza, testimoni che giurano di non averlo mai sentito esprimere opinioni naziste, testimoni che attestano di averlo visto ascoltare la radio straniera (tutti gli accusati l’hanno ascoltata) testimoni ebrei che l’hanno visto comportarsi umanamente con altri ebrei (tutti gli accusati hanno questo tipo di testimoni: costano circa duecento marchi l’uno)”.

L'ultima annotazione che propongo, ritenendola quantomai attuale, è sui valori su cui si fonda, o dovrebbe fondarsi, il nostro occidente, che, ricorda Dagerman,
“consistono nel rispetto della persona anche se questa persona si mostra indegna della nostra simpatia, e nella compassione, ovvero nella capacità di reagire di fronte al dolore, sia esso meritato o immeritato”.

 

Nel 1946 furono molti i cronisti che accorsero in Germania per raccontare quel che restava del Reich finalmente sconfitto, ma dal coro di voci si distinse quella di uno scrittore svedese di ventitré anni, intellettuale anarchico e narratore dotato di una sensibilità fuori dal comune, inviato dall’Expressen per realizzare una serie di reportage poi raccolti in un libro che è considerato ancora oggi una lezione di giornalismo letterario. (da iperborea.com)

lunedì 1 luglio 2019

Citazioni Cinematografiche n.309

Amerigo Vassepi: Come ti chiami, giovane?
Django Freeman: Django.
Amerigo Vassepi: Sai come si scrive?
Django Freeman: D-J-A-N-G-O. La D è muta.
Amerigo Vassepi: Lo so.

(Amerigo Vassepi/Franco Nero e Django Freeman/Jamie Foxx in "Django Unchained", di Quentin Tarantino - 2012)