mercoledì 16 gennaio 2013

Il Profeta (2009)



Regia dinamica ed accurata, che racconta una storia con completezza visiva e narrativa che, in qualche modo, giustifica e rende necessaria la lunga durata, altrimenti deleteria. Il regista Jacques  Audiard, e con lui i bravi interpreti, evita stereotipi ed archetipi, in questo caso fuori luogo, anche non curandosi del politicamente corretto. Un puzzle di generi, noir, gangster movie, film carcerario, opera anche intimista e sociale, che si compone con lenta e puntuale precisione sulla vicenda di un personaggio, l’efficace Tahar  Rahim/Malik El Djebena, talmente sradicato, senza vere radici, né di clan né di razza (nonostante origini arabe), che cerca di barcamenarsi nell’ambiente carcerario, subendone la violenza e permettendosi di imparare, usare i propri antagonisti, voltargli le spalle e ogni volta fare un passo avanti nella scalata verso il potere ed una posizione di privilegio.

La componente “di formazione” della vicenda, ampiamente proposta ed utilizzata in decine di film a tema, viene ad assumere nuova prospettiva, reinventando il genere, con adesione alle regole, fatte di colori lividi e brutalità indicibili, ma allo stesso tempo superandole ed arricchendo l’opera con incursioni oniriche che prima spiazzano ma poi arricchiscono il romanzo di formazione stesso. Da segnalare la recitazione, misurata e ben calibrata, del “padrino” Niels  Arestrup/César Luciani.

La prova di Tahar Rahim è convicente: il suo volto è impenetrabile, la sua maschera si incarica di interiorizzare il dolore di una formazione alla vita ed al potere, fatta di morte, dolore e atrocità. La sua interpretazione si rispecchia in quella di Niels Arestrup, nella parte del boss Cesar Luciani: i loro duelli, fisici e verbali, assumono potenti sfumature edipiche, sino al ribaltamento finale, finio a quel momento solo accennato e quindi comunque sorprendente.

Unica nota negativa è la presentazione di una vita carceraria fin troppo frenetica ed indaffarata, quando ormai si sa bene che sono i tempi morti, l’attesa, i silenzi ed un opprimente senso di horror vacui a darle connotazione. Questo elemento incrina il realismo che comunque ci viene presentato, rendendolo “di maniera” e perciò un po’ stucchevole. Di contro una vaga ambizione modernista ci rende affascinante la durezza e la cupezza di un’opera che merita di essere rivista e ricordata.

Voto:8

Niels Arestrup e Tahar Rahim
Niels Arestrup
Tahar Rahim

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