Nei giorni dei fatti di Piazza
Tienanmen (primavera 1989) ero uno studente delle scuole medie, alle
prese con scombussolamenti ormonali ed altre problematiche adolescenziali, un
po’ confuso e poco avvezzo alle cose del mondo.
Pertanto mi mostravo sufficientemente suggestionabile e
influenzabile, in particolar modo da chi coglieva in un atto di barbarie, in un
massacro come quello avvenuto nei primi giorni di giugno di quell’anno a
Pechino, un’ulteriore occasione per indicare a giovani menti in formazione
quanto fossero malvagi e inumani i “comunisti”.
A distanza di 26 anni dovrei forse riflettere sulle
mie frequentazioni di allora, ma rimangono i fatti, i morti ed anche l’uso di
certe immagini negli anni a seguire, odioso e spregevole in particolare quello
fattone da un movimento politico-religioso italiano fondato da un sacerdote
lombardo.
Comunque non è per evidenziare quanto io sia ostile
a Comunione e Liberazione che scrivo queste righe, bensì per sottolineare che a
quell’età non sapevo pressoché nulla della Cina, a parte qualche dato ed
informazione assunta a scuola ed i soliti cliché che circolavano. A proposito,
allora, come adesso, non riuscivo a comprendere quale affinità o vicinanza ci
potesse essere tra i cinesi “comunisti” e quelli che, comunisti anch’essi (o
almeno così si definivano) amministravano i comuni della mia zona, venivano
intervistati in televisione o anche solo frequentavano il circolo ARCI vicino
al parco giochi. Forse era solo un limite semantico, pigrizia catalogativa o
semplice scorciatoia nel definire caratteri e avvenimenti, ma insomma la Cina
era comunista, forse non proprio come l’URSS o Cuba, ma comunque erano tutti
“cattivi”. E la Cina rimaneva un mistero.
Qualche anno dopo, ampliato (migliorato?), anche
se di poco, il mio giro di conoscenze e frequentazioni e letto qualche libro in
più, avrei avuto l’occasione di “incontrare” nuovamente la Cina.
Fu grazie a Zhang Yimou ed al suo “Lanterne
Rosse”, tratto dal romanzo di Su Tong “Mogli e Concubine”. Fu
una sorpresa! A dire il vero, sorpresa difficile da definire, poiché ancora
sapevo ben poco di quel paese, della sua situazione politico-culturale e
pertanto anche del suo Cinema.
La Repubblica Popolare Cinese, almeno sapevo
come realmente si chiamava, si era messa lungo il mio cammino, sotto forma di
proiezione di un film in un cinema non particolarmente comodo della mia città.
Lanterne Rosse mi rivelava qualcosa della storia di quel
paese, con un evidente talento figurativo e drammatico, espresso mediante
un’impostazione teatrale, tanto misteriosa e lugubre, quanto affascinante. Rigore
e serietà stilistica che venivano esaltate dalla bravura e bellezza di Gong
Li, che riusciva a rendere digeribili persino gli eccessi di manierismo.
Un’esperienza cromatica (il rosso delle lanterne, il nero di inquietanti
veli, il bianco della neve caduta e della follia) che scandisce la lentezza
di quanto raccontato. Quasi una visione ad ostacoli, poiché osservavo gli
“esotici” protagonisti attraverso le grate, gli oggetti che Zhang Yimou
frapponeva fra loro e lo spettatore, quasi a proteggere gli uni dagli altri.
Suggestioni ed emozioni che avrei ritrovato in
altri film dello stesso regista che, nel corso degli anni, ho di fatto
“seguito”, anche nei suoi “ripensamenti” e “passi indietro”.
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