domenica 5 aprile 2020

Tempo e Arvo Pärt


In queste ultime settimane molti si sono impegnati a dissertare sul Tempo, il concetto di Tempo e su come ognuno di noi lo vive, lo sta vivendo e ci ragiona attorno e attraverso. Ho letto diverse cose, chi invita a godere dei ritmi rallentati, senza poi spiegare come e attraverso quali modalità o pratiche realmente attuabili o soddisfacenti, altri invitano a riscoprire il valore del Tempo, alcuni andando o tentando di andare più in profondità suggeriscono interpretazioni e valutazioni al confine fra filosofia, senso comune e quotidiana presa di coscienza. Io non riesco a farmi una mia personale idea riguardo a cosa significhi, durante questi mesi di forzato illusorio ritiro, il Tempo, la sua consistenza e la sua eterea sostanza.
Pertanto mi limito a rileggere qualcosa al riguardo, anche perché comunque impegnato a livello familiare. Attraverso tali letture mi sono trovato a riscoprire l'opera di uno dei musicisti più significativi del '900 e dei primi 20 anni di questo secolo: Arvo Pärt.

Se dunque è vero che, prima e forse anche nonostante quello che stiamo attraversando, il nostro è un Tempo compresso, velocissimo e spesso troppo denso, il compositore estone ci offre una sua personale risposta a tale considerazione, che, permettetemi, ha anche il sapore di una quotidiana provocazione.
Attivo da oltre 40 anni, in mirabile ed invidiabile equilibrio fra genuino minimalismo e influssi che spaziano da una apprezzabile spiritualità alla riscoperta di radici musicali (canto gregoriano e polifonia), Arvo Pärt dalla metà degli anni '70 ha sviluppato una poetica del tutto particolare da lui stesso definita tintinnabulum (in latino campanellino) in cui la dimensione verticale e quella orizzontale si collegano, sostanziata in espressioni capillari in cui l’idea di sviluppo o culmine sono totalmente assenti. 
 
Pärt si collega in modo viscerale a strutture e linguaggi antichi in una dimensione circolare, arcaica e comunque modernissima, del pensiero e dell'arte dove sospensione, rarefazione, ripetizione e scomposizione diventano caratteristici: "Potrei paragonare la mia musica alla luce bianca: essa contiene tutti i colori, solo il prisma può dividerli e farli apparire. Questo prisma potrebbe essere l'anima di chi ascolta”.

Una visione religiosa o, meglio, intimamente spirituale, perciò non confessionale. I lavori di Pärt inducono (e chiedono a chi ascolta) concentrazione e astrazione, in netto contrasto con la compulsiva velocità a cui siamo o saremmo perennemente sollecitati. 


A questo proposito invito all'ascolto, se possibile ripetuto anche quotidianamente, del breve Summa, originariamente composto nel 1977 per coro a cappella sul testo del Credo, rielaborato per orchestra d’archi e trascritto nel 1991 per quartetto d’archi. Voce o strumenti, una sola via verso realtà forse più grandi di noi, in nome di una sana universale umanità, per prendersi del Tempo, per goderne anche solo una manciata di minuti, forse per donare un minimo di senso al nostro (in)evitabile affannarsi e farci affannare.
In fondo siamo in molti a cercare, alla ricerca. Arvo Pärt così ci dice: “Amo molto gli zingari, i girovaghi, i viandanti, perché non sono soddisfatti di quello che hanno e cercano. Amo anche gli alcoolizzati e i malati nell'anima, perché soffrono e si pongono domande. Sono loro idealmente i miei compagni di strada. Anche se io mi esprimo con la musica, soffriamo e cerchiamo le stesse cose".



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