Credo
di non sostenere nulla di particolarmente originale scrivendo che Dylan Dog
era parte della cultura pop negli
anni 90. Contribuiva, in modo sostanziale e con qualche grado di sfrontatezza,
a definire cosa rientrasse nel pop. È divenuto un fenomeno di costume, nel
senso e nell’accezione più “nobile” dell’espressione. C’erano mode e
invaghimenti vari, in campo fumettistico, letterario e culturale ad ampio
raggio, ma Dylan Dog comunque rimaneva visibile e “vivo”, dettando in un certo
modo “la linea”. Ero giovane e anche un po’ suggestionabile, ma avvertivo la
potenza di quegli albi in modo discretamente lucido, non solo sulla base della
diffusa consuetudine di acquistarne uscite originali e varie ristampe.
Nel
corso degli anni qualcosa è andato perduto, o solamente si è “diluito”, ma la
testata Bonelli con quel nome insolito e riconoscibile è rimasta presente e ha
continuato a far parlare di sé, anche se spesso con non troppa benevolenza.
Il
sottoscritto già in altre occasioni ha tentato di scrivere del “nuovo corso”, inaugurato sulla “pelle”
dell’Indagatore dell’Incubo. Ora, grazie alla lettura del n. 341, “Al Servizio del Caos”, tento di
proporre una riflessione sul rapporto fra Dylan Dog e pop.
Da
qualche mese le storie proposte, i disegni e le copertine degli albi sono
tornate ad infarcirsi in modo massiccio ed evidente di rimandi e riferimenti al
pop.
“Al
Servizio del Caos” non solo non fa eccezione, ma potrebbe essere preso a
modello per illustrare una tendenza,
qualcosa che potremmo definire uno stile ed una modalità di gestione della
testata e del personaggio.
Facciamo
la conoscenza di John Ghost, nuova
nemesi di Dylan. Chi pensava di trovarsi di fronte ad un novello Xabaras sarà
sorpreso da questo personaggio, che ha tutte le caratteristiche per essere
qualcosa di più di un elemento accessorio alla vita dell’inquilino di Craven
Road 7. Per essere obiettivi, o almeno provarci, in quest’albo John Ghost
risulta un po’ marginale.
Dopo l’incisiva, sintetica presentazione dello
stesso, nobilitata dai disegni di Stano,
il personaggio rimane defilato e non sembra si sia riusciti, pur all’interno di
una efficace sceneggiatura, a far passare in modo chiaro quale sia il suo ruolo
e la portata delle sue azioni e “non azioni” nel corso della storia
rappresentata. Anche il buon Dylan sembra più una pedina, soggetta a subire
comportamenti, macchinazioni e decisioni di altri. Non si riesce a farsi
bastare quello che si vede e si intravede. È un meccanismo, un artificio ormai ben acquisito e che è
stato più volte proposto da tante (troppe?)
serie TV e fiction, specialmente USA e più o meno recenti.
Qui
risiede il primo elemento degno di nota. Determinati schemi e modalità di
gestione mutuati dalla TV hanno impatto e “catturano”, ma per quanto?
Soprattutto la scelta di affidarvisi segnala che sono le serie TV, cultura pop
evidentemente, ad influenzare Dylan Dog, che rischia di esservi omologato. Non
farebbe cultura, quindi, ma, nella migliore delle ipotesi, ne utilizzerebbe, in
modo un po’ pedissequo, un elemento.
Inoltre,
sempre rimanendo sul n. 341, le
diffuse citazioni e richiami al contemporaneo, ai suoi volti e situazioni fanno
perdere distinzione e originalità al media fumetto.
Mi
spiego: il fumetto non è radio, non
è televisione, bensì qualcosa di
diverso, vive nel mondo in cui vive il lettore, ma allo stesso tempo è un
“luogo” dove viene creato un mondo “altro”, che vuole e può essere estraneo (totalmente o in parte) a quello in cui
viviamo, persino “sospeso”, se ci intendiamo sul termine. Dylan Dog, invece, consapevolmente oppure no, sembra intenda
abbattere questa fragile e ideale barriera.
Con una certa decisione, tra l’altro, altrimenti non si giustificherebbe
l’impressione di essere ancora davanti alla TV mentre leggiamo “Al Servizio del
Caos”.
John
Ghost va a cena da Gordon Ramsey,
Dylan incontra Alan Moore che vive
nella casa dove ha passato l’infanzia James
Bond, il sistema operativo del telefono protagonista richiama un recente
film di Spike Jonze. Attualizzazione
del personaggio e del contesto in cui vive, si dice da circa due anni. Ma
che Dylan abbia visto “Skyfall” e ne sia anche entusiasta stona un po’ con il
suo carattere. Insomma elementi nuovi ed “originali”, ma che potrebbero
risultare difficili da gestire nel lungo periodo, ammesso che Dylan Dog possa
continuare ad essere una testata seriale classica e non “a stagioni”, come
accade, con buoni ed intriganti effetti, con altre storie e “caratteri”.
Dylan
Dog, al momento, contiene cultura pop,
non la sta facendo. Le frasi più incisive pronunciate da John Ghost sono quelle
di Joker ne “Il Cavaliere Oscuro” e
anche il nostro Old Boy abbandona, nel suo eloquio, determinate peculiarità
proprie e “riconoscibili” che lo rendevano differente e distinto dai personaggi
reali.
Un
ultimo appunto: “Al Servizio del Caos” rischia di non trovare un equilibrio
interno, sia preso singolarmente che all’interno di una serie. Risulta un albo
impegnato su temi sociali e filosofici e la critica verso il capitalismo è evidente. Trova spazio il tema della
pervasiva diffusione della tecnologia, tale da rendere schiavo chi ne fa uso
quotidianamente. Si condanna l’edonismo ed il consumismo, possibile grazie allo
sfruttamento di intere popolazioni, viene evidenziato il controllo costante di
ogni singolo dato che passa attraverso gli smarthpone.
Quasi una storia a tema, con un certo sapore di già visto, al limite della
scarsa incisività. Rimane comunque il dubbio che autori e curatori ci stiano
ancora prendendo le misure, come si dice, ma avverto la sensazione che si sia
alla ricerca di un pubblico “nuovo”, a cui certi meccanismi e strategie vanno
maggiormente congeniali rispetto a chi ha cominciato ad acquistare Dylan Dog
pagando in lire e lo leggeva durante le ore di latino.
Per
le cose che mi sono piaciute mi riservo un altro post.
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