Noomi Rapace non è solo
la Lisbeth Salander della Millenium Trilogy, dove peraltro fa la sua bella
figura risultando, di fatto, l’unica vera protagonista. È un’attrice vera,
anche se un po’ segnata da una certa aura di problematica inquietudine
legata ai personaggi interpretati.
Non fa eccezione questo “Babycall”, thriller
psicologico probabilmente non completamente riuscito, dove la svedese mette in
campo una prestazione degna di nota, tanto da farle meritare il premio come
miglior attrice al Festival Internazionale del Film di Roma nel 2011.
La sua interpretazione ben si adatta ad una sceneggiatura
di buon ritmo, con momenti dosati di tensione accompagnati da una
fotografia che gioca sull’alternanza di chiaro e scuro, luce e buio. La storia
tende a perdere forza nel corso della narrazione, esaurendo un bel slancio
iniziale, ma è proprio la Rapace a caricarsi il film sulle spalle e renderlo
godibile e credibile.
Ci sono vari temi che vengono affrontati: il
rapporto madre-figlio; l’ossessione del controllo; la violenza domestica; il
problematico confronto fra individui in una società segnata dal sospetto e da
un pervasivo grigiore e altro ancora. Proprio questo insieme di temi e
tematiche, seppur amalgamate con una certa capacità dal regista Pal Sletaune,
rischia di pregiudicare la buona riuscita del film, che risente di una
freddezza che ne penalizza fin troppo la visione, anche da parte dello
spettatore più avvezzo al genere. Tensione e inquadrature ben riuscite
accompagnano fino alla conclusione, dove, coerentemente con il resto del film,
è Noomi Rapace a salvarci da eccessive implicazioni psicologiche.
il regista Pal Sletaune |
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