Blog su Cinema, Letteratura, Arte, Cultura, Tempo libero, Esperienze.
Post su Film, Libri, Mostre, Esperienze di vita, Fumetti, Cartoni Animati e quello che mi piace ed anche che mi piace di meno.
In fondo chi se ne frega se perdo questo incontro, non mi frega niente
neanche se mi spacca la testa, perché l'unica cosa che voglio è
resistere, nessuno è mai riuscito a resistere con Creed, se io riesco a
reggere alla distanza, e se quando suona l'ultimo gong io sono ancora in
piedi... se sono ancora in piedi io saprò per la prima volta in vita
mia che... che non sono soltanto un bullo di periferia.
(Rocky Balboa/Sylvester Stallone in "Rocky" di John C. Avildsen - 1976)
Principalmente
due sono gli elementi che mi amareggiano riguardo buona parte dei
cartoni animati trasmessi attualmente in televisione e che
anche i miei figli guardano.
In molte
serie animate proposte manca pressoché totalmente la narrazione,
lo storytelling che un importante ruolo invece rivestiva all'interno
di vecchie produzioni. Un tempo si seguivano le peripezie, le
avventure, le scoperte, le gioie ed i dolori di uno o più
protagonisti, fossero animali antropomorfi, giovani uomini, bambini,
coraggiosi e volitivi orfani, fanciulle vicine all'adolescenza o
all'età adulta, con forti componenti realistiche, storiche o
elementi naturalistici, magici/fantasiosi o di altro genere. Così ci
si appassionava a Candy Candy, Remì, Gigi la trottola
o alle varie eroine a cui venivano affidati specifici poteri, a
termine come Creamy/Yu o senza scadenza come nel caso di Sandy ed
altre ancora. Persino i cartoni animati con i “robottoni”
(mecha per i più pignoli) avevano una loro trama,
a volte lunga, con evoluzione dello scontro fra “Bene” e “Male”,
ovvero fra Terra ed invasori alieni, nonché del giovane
protagonista. All'interno di ogni genere, poi, c'erano maturazioni
delle trame, sviluppo della complessità delle vicende, come, ad
esempio nell'ultimo filone citato, il salto di profondità e qualità
interpretativa e di analisi fra Mazinga Z e Gundam.
Ora,
invece, parecchie produzioni offrono decine di
episodi autoconclusivi, del tutto od in gran
parte slegati l'uno dall'altro, senza un legame fra di loro, in modo
da essere sempre facilmente fruibili, senza la necessità di dover
seguire quotidianamente lo sviluppo di una trama, di cui si
rischierebbe di perdere il filo. Personaggi che hanno poteri e risorse senza che si sappia come ne siano venuti in possesso, bambini o giovani adulti che ricoprono ruoli e posizioni di cui lo spettatore non conosce le caratteristiche o come ci siano arrivati (Peter Parker/Spider Man vs Superpigiamini, tanto per fare un esempio).
Un certo
ruolo lo riveste anche l'attuale modalità di “utilizzo” e la
visione di certe serie animate. In sintesi:
quando ero bambino e con me lo erano tanti altri che ora sono
genitori, si vedeva un episodio al giorno delle proprie serie
preferite all'interno di specifici contenitori televisivi previsti
nell'ambito della programmazione quotidiana su canali generalisti. Per cui si impiegava
tempo per arrivare alla “fine” della storia, anche diversi mesi
nel caso delle serie più lunghe come “Peline
Story”, “Rocky
Joe” o “Lady
Oscar”(ma gli
esempi potrebbero essere tanti e vari). Nella Storia che iniziava con l'episodio 1 e finiva con l'episodio XX,
aveva imprescindibile ruolo una trama sviluppata con impegno e
lodevole capacità, composta di avvenimenti anche cruciali,
personaggi vari e non sempre fissi che completavano ed arricchivano
l'insieme, fatto di elementi positivi come negativi, sorrisi come
lacrime, in cui a volte tristezze e lutti si alternavano con le
felicità e le gioie dei protagonisti.
Risulta quindi quantomeno
singolare constatare come proprio nell’era storica che sembra
mostrarne il suo abuso da parte di svariate figure con ruoli
politici/religiosi/formativi/informativi ed altro, lo storytelling,
come detto veicolo principale in passato delle storie e cartoni
animati per bambini/ragazzi, abbia abbandonato il genere, riducendolo
così ad una serie di episodi singoli ed autonomi, nei casi peggiori
a striscie animate cadenzate da buchi neri logici e infarcite di
demenzialità ed idiozie, senza nessi logico-narrativi.
Il secondo elemento che mi interessa approfondire un po'
è la mancanza di attenzione alla parte
musicale. Non mi riferisco solo alle sigle,
che un tempo erano “il biglietto da visita” di ogni serie,
ragione per cui le si imparava a memoria, si acquistavano le
musicassette che le raccoglievano (una
per ogni annualità di cartoni animati che andava di pari passo con
l'anno scolastico), ed ancora oggi ci
sono folte schiere di flippati
appassionati che ne compongono compilation e vanno ai concerti di
alcuni dei nomi “storici” delle sigle, come I Cavalieri del Re o
Cristina D'Avena, punte di diamante o quasi di una vasta serie di
voci più o meno “prestate” agli anime ed ai cartoni animati. A
parte le sigle, ogni cartone “di una volta”, diciamo fin dalle
prime produzioni anni 30 per giungere agli anime giapponesi anni
70/80/90, dedicavano grande attenzione alle musiche, fossero
originali o prese a prestito da autori classici, jazz, swing e altro
ancora.
Ricordo Bugs Bunny che
tenta di suonare la “Rapsodia Ungherese n.2”
di Franz Liszt mentre un beffardo topolino lo
disturba, oppure l'intera banda Disney
che suona parti del Gugliemo Tell rossiniano
con Topolino direttore d'orchestra. Oppure le musiche degli episodi
di “Tom and Jerry”, così come quelle di Will Coyote, Speedy
Gonzales, Duffy Duck, Porky Pig, Gatto Silvestro, che probabilmente
hanno riscosso e tuttora potrebbero riscuotere successo grazie alle
note e composizioni eseguite, a volte lampi di suono, oppure melodie
semplici o composite, serie armoniche o file di note impazzite.
Pensate: ad ogni movimento di Bugs Bunny o
Will Coyote viene associato un particolare suono, che spesso
proveniva da uno degli elementi di un’orchestra sinfonica.
Ogni particolare era studiato e scelto con cura, con tutti i generi,
dal jazz alla classica considerati utili, efficaci ed essenziali alla
realizzazione dei cartoni animati, dalla sua parte grafico-animativa
a quella sonora.
Mi piace
pensare che in questo modo i bambini facessero la conoscenza della
Musica. Fosse classica, pop, sinfonica, da
camera, operistica, jazz, swing o altro, le immagini veicolavano il
sonoro e da questo traevano ulteriore forza e vitalità. Anche
gli anime facevano la loro parte. C'erano motivi musicali ricorrenti
che sottolineavano i passaggi fondamentali delle storie, alcuni
momenti importanti o i personaggi principali, con temi appositamente
composti. Faccio l'esempio della serie “Heidi”,
le cui “musiche di sottofondo”
erano molto importanti, fondamentali quanto la sigla cantata da
Elisabetta Viviani. Polke, walzer, piccole
romanze o brani pop-sint che creavano l'atmosfera dei monti,
evidenziavano le emozioni della piccola protagonista e dei suoi
amici, introducevano ogni episodio o fungevano da commiato.
Da qualche anno è possibile ascoltarle pressoché tutte su specifici
canali youtube.
Molti
cartoni animati che guardo insieme ai miei figli non hanno questo
elemento, alcuni neanche una sigla decente o degna della funzione che
dovrebbe svolgere. Ritorna ovviamente l'elemento della tipologia di
trasmissione, offerta e fruizione, che ora rende possibile vedere
anche cinque o sei episodi uno dopo l'altro. Questo se ci si limita
alla televisione, se poi ci si sposta sulle piattaforme in streaming
il numero si alza notevolmente. La sigla non ha più senso, anzi
sarebbe una noia risentirla più volte ogni pochi minuti(questo
anche perché la durata dei singoli episodi è diminuita rispetto ad
un tempo, facilitando la visione a ruota libera anche di un'intera
serie o “stagione” della stessa).
A ciò si aggiunge una certa noncuranza delle musiche di sottofondo o
di accompagnamento, con suoni che si limitano, quando va bene, ad
essere onomatopeici, oppure sono assenti o semplice rumore, che nulla
aggiunge ai dialoghi o al visivo. L'eclissi
del sonoro, assente o semplicemente inutile od insulso in molte
serie. Che peccato!
Ma
forse c'è ancora speranza:
fra ciò che guardo in TV, in alternativa a quanto posso scegliere io
da vedere con i miei bimbi, vi è un'eccezione!
“Masha
e Orso” è un piccolo
capolavoro, che alla alta qualità dei disegni, degli sfondi, del
rapporto “verticale” fra i due protagonisti aggiunge una grande
attenzione alla musica, al sonoro ed al suo ruolo all'interno della
macrotrama e dei singoli episodi.
Si va dalle citazioni
delle colonne sonore cinematografiche ai capolavori del repertorio
sinfonico. Dalle suggestioni gioiosamente western ai brani tipici dei
film sportivi, dall'“Also
sprach Zarathustra”
di Richard Strauss che immediatamente riporta all'immaginario
kubrickiano de “2001” al ritmo della “Rapsodia
ungherese”
di Brahms, passando con medesima arte ed efficacia attraverso
Beethoven e Scott Joplin, senza dimenticare la dance ed il pop più
evocativo e divertente. In “Masha e Orso” non mancano le
composizioni
originali,
che hanno lo stesso valore dei classici, che sarebbe bello i miei
bambini imparassero ad ascoltare anche con l'aiuto di un orso delle
foreste russe e della piccola bambina che lo tormenta. Quantomeno
perché così, magari, riterrebbero il loro babbo meno noioso quando
in auto o nel fine settimana inserisce nel lettore un cd di Mozart o
Chopin, di Chet Baker o Bill Evans.
In
fondo la musica di un cartone animato può aiutare molto, veicola in
modo semplice e divertente il senso ed il gusto di brani musicali,
che divengono a volte più importanti del resto, a maggior ragione se
il cartone in questione non ha pressoché per niente dialoghi. Un
po' come poteva accadere in alcuni film muti, in “Masha e Orso”
il formato è quello, ovvero poco dialogo e tanto spazio ai suoni ed
alla musica.
Il contrario di tanti cartoni suoi coevi, che hanno così tanto
dialogo e parlato, a volte stupido, inutile e superfluo, che la
musica non significa più molto e viene essa stessa svilita ed
impoverita delle sue caratteristiche.
La
speranza è che una parte dei nostri bambini riesca, come è successo
a molti di noi, a crescere con la musica classica e con la buona
musica in generale senza quasi accorgersene. Un effetto educativo con
risvolti parainconsci, come succedeva con brani del "Barbiere di Siviglia",
con il “Bolero” di Ravel,
Gershwin della “Rapsodia in Blu”, la serenata notturna di Glenn
Miller
o le suggestioni dateci da Chopin, Čajkovskij, dalla voce di Ella Fitzgerald o di Mina.
Brani
che erano inseriti nella programmazione quotidiana ed in molti
cartoni animati o come sigle di trasmissioni radiotelevisive.
Gli
uni come gli altri ci rendevano familiari brani e canzoni,
probabilmente non ne conoscevamo autori ed interpreti, ma li avremmo
imparati successivamente. Ciò
vale per la musica classica come per altri “classici”, da Frank
Sinatra a Elvis Presley, passando per Louis Armstrong.
Da diversi
anni desideravo leggere i libri della serie del commissario Van
Veeteren, ad opera dello scrittore svedese Håkan Nesser. “La Rete
a maglie larghe” ha visto la sua prima pubblicazione italiana nel
2001 per la casa editrice Guanda. Mi sono procurato proprio
quell'edizione ed ho così potuto far finalmente diretta conoscenza
dell'autore e del suo personaggio, che vive nella immaginaria
cittadina nordeuropea di Maardam.
Un inizio
molto noir e gustosamente coinvolgente, grazie al carattere ed alla
descrizione del fin troppo facile da individuare colpevole, della sua
amnesia e del suo spaesamento di fronte al cadavere della moglie ed
al fatto che proprio lui sembra poter essere l'unico ad averne
commesso l'omicidio. Colpevole per tutti, ma non per il commissario
Van Veeteren, che “simpaticamente” brusco ed antipatico si ostina
a credere alla sua innocenza, anche contro le dichiarazioni
dell'innocente stesso. Inizia così la parte più propriamente
investigativa e “gialla” del romanzo, con viaggi, pedinamenti,
interrogatori, incontri più o meno organizzati, telefonate che si
connotano di mistero e la caparbietà, l'ostinazione del commissario,
che non disdegna qualche birra ed una partita a badminton durante
l'orario di lavoro.
La
narrazione, coinvolgente e accattivante, oscilla fra realtà e
finzione, fra ricostruzioni e la durezza dei fatti oggettivi, con uno
stile personale che fa innamorare il lettore, catturato dai vari
personaggi, protagonisti di una particolare e precisa vicenda, ma che
alla fine del romanzo risultano come inseriti in storie dal sapore
universale, con annessi archetipi e tratti generali che si possono
ritrovare in “La Rete a maglie larghe” proposti con grande
abilità e sapiente utilizzo dei registri e degli ambienti.
Tipi umani e
tratti geografici e sociali donano ulteriore spessore e qualità
a quanto raccontato, con una giusta dose di suspense e di mistero che
mai guasta.
Una
grigia mattina di ottobre Janek Mattias Mitter si sveglia con un mal
di testa lancinante per i postumi di una sbornia colossale. In cucina
bottiglie vuote ovunque, in bagno il cadavere della giovane moglie
Eva che galleggia nella vasca. Mitter non ha ricordi della notte
appena trascorsa, tranne la certezza di non essere stato lui ad
ucciderla. L’uomo chiama la polizia che, giunta sul luogo del
delitto, lo arresta…
Sa, non mi interessano le risate facili, voglio suscitare delle reazioni
profonde, voglio che la gente viva dell'esperienze emotive, che mi
amino, che mi odino, che vadano via. È tutto grandioso.
(Andy Kaufman/Jim Carrey in "Man on the Moon", di Miloš Forman - 1999)
Un albo da
cinefili e per cinefili questo “Pianeta di Sangue”, numero
221 della serie, dove il nostro Dampyr preferito deve vedersela con
più di un vecchio nemico, per l'occasione di stanza a Parigi, fra la
Belle époque ed i giorni nostri.
Il tutto
parte dalla ricostruzione, fantasiosa e suggestiva, della scomparsa
di Louis Le Prince, pioniere dell'arte cinematografica. La serie è
solita poggiarsi su fatti reali per poi dare spazio alle
sceneggiature ed alla fantasia dei suoi curatori e creatori. Non fa
eccezione il bel lavoro compiuto da Giorgio
Giusfredi, che pur creando un soggetto ed una
sceneggiatura che da soli fanno la loro figura, riesce ad inserirsi
nella continuity dampyriana, con vari richiami, collegamenti a
personaggi già conosciuti, tra gli altri, negli albi 219 (Tutto per Amore),
218 (Danse Macabre),
193 (I Misteri di Cagliari).
Tra l'altro mi ha fatto molto piacere rivedere la succuba Meridiana,
sempre bellissima, e Ljuba
che cresce e credo che presto potrebbe meritarsi nuovamente spazio
nel corso delle pubblicazioni.
Ovviamente
c'è molto altro in “Pianeta di Sangue”, con la componente
cinefila a farla da padrone e da linea
centrale, grazie al ricordo del già citato Le Prince e di Georges
Méliès, regista, attore e illusionista francese, inventore del
cinema fantastico e horror.
Evidente e
gradito l'omaggio al cinema di genere, con vari riferimenti ai
“cattivi” ed ai mostri più noti (divertente
trovarli e riconoscerli tutti, tra cui Alien ed una creatura di
Myazaki), ma anche a Truffaut, che funge da
legame tra l'ambientazione parigina e l'horror, tra gli stili
registici e la biografia di Harlan e Ljuba.
Un elemento
da me molto apprezzato della sceneggiatura di Giusfredi è la non
comune abilità e cura nel tratteggiare anche dal punto di vista
psicologico i suoi personaggi, più o meno protagonisti, che riescono
a fungere non da mero contorno per i caratteri principali. Per cui
fra Maestri della Notte, Dampyr e creature infernali, il lettore si
gusta tutto il “cast”, compresi i critici cinematografici ed i
blogger, figure molto concrete e vicine alla realtà, pur con la loro
lievissima componente caricaturale.
Il lavoro di
Alessio Fortunato è
sempre più apprezzabile, per la cura e la maestria nel disegnare e
inchiostrare storie oscure, con abbondanza di creature mostruose,
nebbie goticheggianti, sguardi truci e crudeli, posture di sfida e di
battaglia nella cornice di decadenti ville aristocratiche. Il suo
stile rende al meglio l'atmosfera e le ombre da lui create sembrano
tanto tangibili da riuscire a circondare ed inghiottire non solo i
personaggi sulla carta ma il lettore stesso (insomma
mi è piaciuto il suo lavoro!).
Come
purtroppo accade in altri albi della serie, l'unico difetto che posso
trovare è che la storia risulta, ad una lettura maggiormente
meditata e “obiettiva”, un tantino lievemente sbilanciata, dove
l'ottima costruzione della trama, del contesto e delle ambientazioni
porta ad un finale che risolve il tutto con modalità forse troppo
rapide (rimane sempre il limite del numero di pagine degli albi
Bonelli).
Sul
treno Digione/Parigi, il 16 settembre 1890 scomparve il primo
inventore della cinepresa a lente unica, Louis Le Prince. In che modo
questo misterioso avvenimento ha a che fare con l'inventore del
Cinema Fantastico e Horror, Georges Méliès? Nella Parigi della
Belle Époque nasce una pellicola maledetta di cui sopravvive ancor
oggi una terribile copia che viene conservata da una società segreta
di cinefili... Chi trama nell'ombra per uccidere Dampyr con "Pianeta
di sangue", il film che rende folli? (da
sergiobonelli.it)
L'attore
statunitense Ethan Hawke è indubbiamente molto noto per la
lunga serie di film e personaggi interpretati, per il suo impegno
come regista ed anche come scrittore (Minimum Fax ha pubblicato
alcuni suoi libri). Per chi ha circa 40 anni il buon Hawke è
stato innanzitutto e forse un po' è ancora, soprattutto, il timido e
represso Todd Anderson de “L'Attimo Fuggente”.
Proprio il
film di Peter Weir, quello del “Carpe Diem”, di “O
Capitano! Mio Capitano”, di Walt Whitman e del fiume Congo che
“scava con la testa”.
Era il 1989
quando il film uscì, pochi mesi prima che l'Occidente si convincesse
di aver vinto e si illudesse di aver fatto sì che la Libertà
prevalesse contro il “Male”. L'Occidente libero e democratico si
apprestava a godersi la caduta del Muro (come se ce ne fosse solo
uno!) e gli adolescenti di buona parte del mondo, persino in
Italia, si entusiasmavano per le vicende di quel gruppo di studenti
negli Stati Uniti degli anni 50. Gli USA ancora per qualche tempo si
sarebbero sentiti innocenti e dalla parte della ragione e del giusto,
prima che si cominciasse ad ucciderne i presidenti e si ponessero le
basi per le battaglie sui diritti civili.
Chi
frequenta la Welton Academy in quel periodo (solo maschi,
ricordate la famosa scena della telefonata da parte di Dio?), per
volere dei genitori entra in una istituzione formativa che prevede e
perpetua una rigida separazione delle classi, con la pretesa, o la
scusa, di preparare la futura classe dirigente. Una istituzione che
prende, forma e restituisce uomini destinati a divenire, nel loro
intimo essere, “carne da macello”.
Contro
questo sembrava stagliarsi la figura del professor John Keating,
un Robin Williams che a fatica teneva a bada la sua natura istrionica
non sempre centrata ed opportuna nei vari film interpretati.
Ebbene io ed
i miei coetanei e compagni di scuola non potemmo non innamorarci di
questo film e dei suoi protagonisti. Cosa c'era di più esaltante di
un professore che ti fa urlare in aula, giocare a pallone durante
l'ora di letteratura declamando versi, ti invita a “sentire” la
poesia, ti sprona a goderti i tuoi giorni “succhiando il midollo
della vita”, sempre senza “strozzarti con l'osso”? Come si
poteva non invidiare gli studenti Todd Anderson, Neil Perry, Knox
Overstreet, Charlie “Nuwanda” Dalton, Steven Meeks, Gerard Pitts
e detestare il traditore Richard Cameron? Un gruppo tanto fortunato
da accogliere gli insegnamenti del professore di lettere Keating e,
abbandonati, strappati i testi classici, si ritrova in una grotta per
leggere poesie, suonare male il sassofono, fumare sigarette e parlare
di sesso, il tutto senza preoccuparsi della morale e del decoro. Si
vedeva, si voleva vedere in ciò più che un richiamo, un vero
impulso, quasi un ancestrale istinto alla libertà da una repressione
sociale ma anche intima, privata, perfino auto-imposta.
Ora, a
distanza di quasi 30 anni, mi viene da pensare che prendemmo una
grossa cantonata.“L'Attimo
Fuggente” ci sembrava un film sulla e
per la libertà, e per tanti anni ancora io stesso mi sono illuso che
avrei potuto “cogliere l'attimo”, persino con i miei tanti ed
enormi limiti. Pensavo che non mi sarei fatto stringere da norme,
consuetudini, tradizioni e cliché, sociali, privati ed emotivi.
Invece, penso ora, quello era un film
sull'illusione. Acutamente e dolorosamente
un'opera sull'illusione della libertà. Dopo
tre decenni di vita e di esperienze, di film e di libri letti, di
studi ed esami, giungo ad affermare che “L'Attimo Fuggente” era
un avvertimento, una predizione. Forse qualcuno dei miei amici e
amori di allora continua a ritenerlo un invito, una spinta per
smuovere gli spettatori, gli adolescenti incerti ed inerti ed
indicare una via. Probabilmente può esserlo, ma la via che viene
proposta è quella del martirio, tanto tragico e doloroso quanto
inevitabile.
I fatti:
Neil Perry mette fine
ai suoi giorni sparandosi in testa con la pistola del padre, che gli
vuole impedire di recitare. Nuwanda
viene espulso per aver picchiato il traditore Cameron,
che invece riceve un encomio poiché si è più o meno
consapevolmente piegato alle volontà e “desiderata”
istituzionali. Gli altri sono costretti
all'abiura nei confronti dell'amato professore, scelto come unico e
solo colpevole della tragedia prima ricordata. Ben
poco è servito che le pagine del manuale di letteratura, scritto da
un immaginario professore emerito di nome Jonathan Evans Pritchard,
siano state strappate via, giacché il tutto si risolve in un gesto
puramente estemporaneo, senza vere, auspicabili conseguenze a lungo
termine.
Martirio
quindi anche del professor Keating, il difensore del pensiero libero,
che viene in un attimo rimosso dall’incarico. Avranno anche
imparato a pensare con la loro testa, alcuni (pochi)
studenti di Welton, ma la Società
è più potente. Sempre sarà più potente. Anche i membri della
setta dei poeti estinti finiranno dietro una teca di vetro,
immortalati in una fotografia polverosa e muta. Anche loro
sussurreranno “carpe diem” ai prossimi iscritti alla Welton, più
giovani ma che ugualmente saranno inquadrati dietro lavori che non
vogliono svolgere e ruoli sociali che gli sono stati calzati addosso
da quando sono nati. E anche loro resteranno in realtà inascoltati.
Con
durezza ed un po' di rammarico scrivo che il bel film che ci ha fatto
sognare di vita, libertà, speranza e amore per noi stessi e gli
altri risulta in realtà un film di sconfitta, di tristezza, di
uomini morti e di repressione. È un
film che dopo aver fieramente sorretto e profuso la speranza, giunge
ad annientarla. La speranza che non può esistere in una società che
si considera già
libera e democratica, e se ne fa vanto in ogni luogo ed in occasione.
Onore.
Disciplina. Tradizione. Eccellenza. Queste le quattro parole che
connotano la Welton Academy. Queste le quattro parole che si fanno
vuote nel momento stesso in cui vengono pronunciate. Onore.
Disciplina. Tradizione. Eccellenza. Eppure molti adolescenti di
quegli anni, ancora senza social network e telefonino, scrivendo sul
diario le frasi del film, i versi di Walt Whitman, nel mio caso anche
indossandoli stampati su una maglietta, si sono a loro volta illusi
di poter essere padroni della propria vita, liberi di fare ed essere
ciò che sentivano dentro di loro, liberi anche di vivere i “vuoti”
della propria anima per prenderne consapevolezza, senza fretta o
imposizioni. Magari liberi ed in grado, se avessero voluto, di
prendere parte a una rivoluzione o a qualcosa di simile, di poter
offrire le proprie energie ed il proprio entusiasmo per far
migliorare tutti quanti, essere veramente liberi e democratici, di
poter essere parte della società in modo paritario, senza venirne
schiacciati.
Ma alla
fine Todd Anderson sale su quel banco, e con lui la macchina da
presa, e con lui tutti gli spettatori, come ultimo commiato. Un
ultimo, disperato e velleitario gesto di ribellione che segna la fine
della setta dei poeti estinti. Li estingue una volta per tutte. Quel
“grazie, ragazzi” è il dolcissimo e perduto saluto di un uomo
sconfitto a una generazione che come lui sarà sconfitta, se non
accetterà i dogmi, le regole e le imposizioni di chi decide, pone e
dispone. Di chi agisce liberandosi e schiacciando i diversi, i non
inquadrati, chi denuncia l'assurdità, l'iniquità e l'ingiustizia di
uno stile e di una visione.
In
un college molto tradizionale nel New England degli anni Cinquanta,
capita un professore simpatico e anticonformista, che esorta i
ragazzi ad affrontare lo studio e la vita seguendo le proprie idee e
non quelle dei nonni. Uno degli studenti, entrato in conflitto con i
genitori, si suiciderà. La responsabilità viene rifilata al prof.
Lui sarà cacciato, ma i suoi allievi non lo dimenticheranno. (da
mymovies.it)
Accade,
a volte, che l'aspettativa che si crea, che creiamo intorno ad
un evento od una qualsivoglia manifestazione o accadimento che
incroci le nostre vite o anche solo un nostro interesse o bisogno,
finisca per essere delusa e ci si ritrovi a sentirsi meno appagati o
soddisfatti di quanto riteniamo di averne diritto. Se però si
osserva la questione da un'altra prospettiva, con più calma e
maggiore onestà critica, con l'evento in sé ma anche nei nostri
confronti, può capitare, di contro, che ci si renda consapevoli che
proprio l'aspettativa che abbiamo creato si arroghi il potere di
rovinarci il gusto di vivere e godere dell'oggetto in questione, sia
esso materiale od immateriale.
È
questa la riflessione che propongo in merito alla lettura dell'albo
numero 383 di Dylan Dog, “Profondo
Nero”.
Il
fatto che sia il primo albo dell'Indagatore dell'Incubo in cui
compaia la firma di colui che, in modo più o meno esplicito, è tra
le fonti di ispirazione della serie fin dai suoi esordi 32 anni fa, e
che il disegnatore chiamato a rappresentarne idee e suggestioni sia
uno dei più importanti nel panorama nazionale ed internazionale,
unito al tam-tam promozionale, ha creato l'aspettativa di cui sopra,
condita da impazienza, fantasie, ansie e altro ancora.
Ad
una prima lettura e seguendo pulsioni poco più che primordiali,
l'albo si presenterebbe come una mezza delusione. Rimangono i
disegni di Corrado Roi,
la sceneggiatura che accanto al nome illustre di Stefano
Piani riporta quello
ancora più intrigante di Dario
Argento,che
in qualità di autore del soggetto merita anche di essere riportato
sulla copertina argentata dell'albo.
Quindi,
se si agisse di impulso, si digiterebbero sulla tastiera parole e
frasi di rammarico e franca delusione, poiché “Profondo Nero”
sembra una buona storia, con qualche ottimo momento e tavole molto
belle, ma tutto potrebbe rientrare nella norma di una serie che negli
ultimi tempi ha dimostrato di avere ancora qualcosa da dire, unendo
lo spirito dei primi anni di pubblicazione con le esigenze del
mercato e del pubblico. Ma
c'era bisogno di “sparare” il nome di Dario Argento sulla
copertina? Era imprescindibile creare tanta tensione e senso di
attesa per questa uscita?
Le
regole del già citato mercato forse lo richiedono ed al lettore
rimane la possibilità di esserne lieto o addolorato, rimanerne
indifferente o incazzarsi. Oppure si sceglie di (ri)leggere
la storia come se niente fosse, godendo quanto di buono c'è e con
serenità facendo qualche valutazione sulle scelte del disegnatore e
degli sceneggiatori.
Allora
rimane il senso di una buona occasione, se non proprio storica,
quanto meno importante, straordinaria ed eccezionale, in quanto fuori
dall'ordinario e vera eccezione, sia nell'ambito Bonelli che in
quello più generale del fumetto italiano.
Corrado
Roi con la sua arte ci mostra come sia possibile rievocare il pathos,
la suspense e il brivido delle pellicole
horror, senza far
divenire una storia disegnata la copia di un film, bensì servendosi
di sublimi inchiostrazioni, ombre sfumate e intense crea una
ineguagliabile atmosfera, che sopperisce alle scelte in materia di
sceneggiatura. Quest'ultima, sebbene basata sull'universo e le
pratiche BDSM,
ovvero Bondage & Disciplina, Dominazione & Sottomissione,
Sadismo & Masochismo, ossia quelle pratiche relazionali e
sessuali basate sul dolore fisico e che comportano un rapporto di
dominazione/sottomissione, sceglie di concentrarsi ben poco sul corpo
e le relative prove a cui risulterebbe sottoposto, virando sugli
sguardi, i volti, gli occhi ed altri particolari d'atmosfera.
Non
è un film horror, non è un racconto in cui si “avverta” il
dolore, si “viva” la sofferenza e lo strazio.
Cosa che sarebbe stata possibile, addirittura auspicabile nel momento
in cui si arriva a scomodare uno dei più grandi del cinema horror,
degnamente affiancato. Forse Dylan Dog non è la serie giusta, si
potrebbe obiettare, ma il personaggio è conosciuto, la casa editrice
è saldamente fra le prime in Europa per vendite, diffusione e
qualità. Magari si poteva tentare.
Un
buon albo, forse non epocale. Ottimo nella serie, più che
tipicamente dylaniano, grande prova grafica e dal sicuro impatto. Una
buona occasione ma che possiamo scegliere se permettere che ci lasci
un vago senso di delusione, di occasione non completamente sfruttata.
Che
cos’ha a che vedere la vicenda della bellissima Beatrix, scomparsa
nel nulla all’improvviso, con l’antica tradizione dei whipping
boy, ragazzi cresciuti accanto a coetanei di nobile casata per essere
puniti al loro posto quando questi ultimi trasgredivano le regole? A
Dylan Dog il compito di indagare, in una storia congegnata dal
maestro dell’Horror Dario Argento. (da
sergiobonelli.it)
Con grande
piacere nel numero 220 di Dampyr ho rivisto l'affascinante
quanto letale Ah-Toy, di cui i lettori avevano fatto la
conoscenza nell'albo numero 215 “Chinatown”.
Il titolo
“La Riscossa di Ah-Toy” stimola ed incuriosisce e posso
dire di non essere rimasto deluso nel complesso, sebbene, come a
volte capita all'interno della serie, lo scontro finale fra il
villain ed Harlan si risolva, ancora una volta, in modo fin troppo
sbrigativo. Il numero limitato di tavole di un singolo albo non
aiuta, quindi si comprende come sia spesso difficile per
sceneggiatore e disegnatore mantenere fino alla fine il giusto ritmo
e la opportuna dose di dettagli e approfondimenti, in modo da far
sviluppare al meglio trama, avvenimenti e particolari.
Tutto ciò
in questo albo non pregiudica la resa finale, dal momento che la
caratterizzazione di Ah-Toy, anche grazie alla sua precedente
presenza nell'albo citato, è ottima ed efficace, in grado di
interagire al meglio con il Dampyr, Tesla, Kurjak e gli altri
protagonisti.
Il soggetto
e sceneggiatura di Claudio Falco si
rivela una ben riuscita unione e sinergia fra elementi
horror, esotismo d'avventura e dettagli tipici dei gangster movies,
utilizzando la cornice della Malesia che emoziona il lettore, che si
gode i
disegni di Vanessa
Belardo. La
disegnatrice regala tavole
efficaci, solide e ricche di dettagli,
in grado di valorizzare al meglio gli elementi non solo del singolo
albo, ma della serie nel suo complesso, dall’atmosfera horror ai
passaggi tipici dell'azione disegnata, dagli esterni marittimi ed
urbani agli interni, con una buona capacità di rendere i dettagli e
le atmosfere.
La
Maestra delle Tenebre Ah-Toy è rimasta nell’ombra per secoli, ma
le indagini di Jim Fajella, il poliziotto vampiro amico di Dampyr,
hanno messo in luce i suoi loschi traffici, dalla Chinatown sulla
West-Coast statunitense alle metropoli. La potente supervampira si
prepara alla resa dei conti, in Malesia, contro Harlan Draka e un
manipolo di guerrieri mercenari di T-Rex! (da
sergiobonelli.it)
"Perché
è lì." È ciò che rispose un alpinista di nome George
Leighmallory quando gli chiesero perché volesse scalare l'Everest.
Il vecchio George era matto come un cavallo. Scalare l'Himalaya è la
cosa più pericolosa che un uomo posa fare. Questa cima non è
l'Everest ma non è comunque una passeggiata. Bisogna sempre avere
una buona ragione per scalare una montagna. (Wolverine)
Ho visto il
film “Everest” su consiglio, un po' interessato e magari
anche simpaticamente malizioso, di un mio collega. Per dirla in
breve, mi ha deluso, anche se ammetto di averlo visto per intero con
una buona dose di curiosità.
Non sono
nuovo alla visione di film avventurosi, mi piacciono quelli sulla
montagna, ma appunto per questo motivo ho molte riserve su “Everest”,
proprio perché da un certo punto in avanti la vera assente è per
l'appunto la Montagna. Ma come? Un film sull'Everest, sul
tetto del mondo, su ciò che simboleggia, forse più di molto altro,
l'avventura, la sfida, il coraggio, l'ardimento, a volte la superbia
dell'uomo, il confronto fra l'umano e la Natura, ha come assente
proprio quei 8.848 metri?
Secondo la
mia visione e l'opinione che me ne sono fatto è proprio così.
Proverò a scrivere perché. La prima parte sembra ben pensata e
sviluppata dal regista islandese Baltasar
Kormákur, con efficaci ed emozionanti
movimenti di macchina, tanto ariosi e pieni di colore e pathos da far
ben iniziare la visione e la narrazione di quella che si rivela una
tragedia. Subito dopo,
però, è tutto una lacrima, telefonate intercontinentali, scambi di
parole d'amore e di pietismo stucchevole. Le ottime potenzialità
date dall'ambientazione, suggestiva per qualunque spettatore, e dalla
base di partenza definita dal saggio Aria
sottile (Into Thin
Air), scritto da Jon Krakauer su cui l'intera
opera cinematografica si basa, vengono sprecate dalla deriva
hollywoodiana, per la quale l'incontro/scontro fra uomo e natura e la
fin troppo evidente suicida sfida con se stessi e col leviatano
roccioso sono ridotte a poche battute da accademia. Prendono così il
sopravvento i rapporti interpersonali, le componenti melodrammatiche
e le dinamiche moglie/marito affidate alle di solito apprezzabili, ma
qui poco più che belle figurine, Keira Knightley (piangente
in ogni scena in cui sia presente) e Robin
Wright. I personaggi femminili risultano fortemente penalizzati,
persino se hai nel cast Emily Watson ed Elizabeth Debicki. Discorso
analogo per i personaggi maschili. Risulta quasi una colpa
difficilmente perdonabile sprecare il lusso di poter dirigere nello
stesso film Josh Brolin, Jake “Donnie Darko” Gyllenhaal, Jason
Clarke ed altri buoni attori per poi non permettere allo spettatore
di “respirare” l'impresa, con la sua follia intrinseca, di
“vivere” il dolore fisico e psicologico dei vari protagonisti,
con le loro morti “telefonate” e la banalizzazione di un dramma
che impedisce, inoltre, di godere appieno dell’unicità dei
paesaggi.
La
colonna sonora soffoca e rende fin troppo piccoli i personaggi, rende
dell'Himalaya un'immagine vagamente oleografica, quasi da cartolina,
superficiale a tal punto da non comunicare il silenzio, il vento, la
tempesta. Elementi che cedono malinconicamente la scena agli
ammiccamenti, alle facili emozioni, al melò, ad una narrazione
didascalica che sottolinea ancora di più ed impietosamente il senso
di un'occasione mancata.